C’è una notte magica che si ripete identica da tempo immemore lungo la Valle del fiume Foro, in un borgo fortificato sul promontorio che si erge tra gli affluenti Vesole e S. Martino. Un centro antico alle falde della Maiella dal nome che ricorda le sue origini longobarde, Fara Filiorum Petri. Una sentinella medievale al limite del territorio montano che sorveglia il corridoio naturale risalente dal mare. Intorno, tanto bosco, ruscelli e torrenti rendono il paese umido al crepuscolo, come ad avvolgerlo in una luce romantica e misteriosa che una volta l’anno si accende di rosso fuoco: il borgo viene invaso dall’odore nostalgico e intimo delle canne che, come enormi torce, bruciano in piazza riscaldando la serata gelida e dipingendo un paesaggio spesso imbiancato.

Come un incantesimo arriva la Festa delle Farchie, a riscaldare il rigido gennaio con sentimento di fratellanza che unisce la gente delle contrade del paese. Tutti si ritrovano intorno a un fuoco per rinnovare gesti, canti, ricordi. Questa antica festa popolare scorre in un fluire spontaneo e autentico che allontana con la luce del fuoco il buio della solitudine invernale, riempie di vivacità il tempo quotidiano rallentato dal riposo della terra. Quindi legata alla tradizione contadina, tramandava la memoria collettiva con racconti orali. In essa ritroviamo il mito, la storia, tradizioni e superstizioni, credenze e leggende, sacro e profano.

Il fuoco protagonista

Una festa complessa quella delle Farchie, assimilabile però ad altri riti di purificazione e propiziazione per la fertilità della terra, sparsi in Abruzzo e in Italia. Come ad Atri quella dei Faugni, alti fasci di canne che all’alba dell’8 dicembre vengono portati in processione mentre bruciano, e la Fòcara di Novoli dove la notte tra il 16 e il 17 gennaio, giorno in cui sant’Antonio abate è ricordato sul calendario cristiano, viene acceso in piazza un grande falò di fascine di tralci di vite. Protagonista è sempre il fuoco, che in prossimità del solstizio invernale prelude alla rigenerazione della natura, fuoco che brucia l’anno vecchio e il legno spoglio e accoglie il nuovo anno, simbolo di rinnovamento del mondo agrario e della speranza di benessere con i nuovi raccolti. 

Anche le Farchie di Fara Filiorum Petri vengono accese il 16 gennaio per celebrare il culto di Sant’Antonio abate, monaco asceta vissuto in Egitto nel IV secolo, che ha trascorso gran parte della sua vita come eremita nel deserto della Tebaide, considerato uno dei padri del monachesimo. Il santo è diventato il simbolo della lotta contro il male che nelle sembianze del demonio, investito dal fuoco, lo tentava con i piaceri della carne nei periodi di isolamento. Il suo culto si è consolidato in seguito attraverso la regola dell’ordine ospedaliero degli Antoniani, monaci deputati alla cura delle epidemie dei quali il santo taumaturgo era l’ispiratore. Questi curavano infermi e bisognosi, anche quelli affetti da ergotismo, intossicazione dovuta a un fungo generato dalla segale mal conservata, che oltre a compromissioni dell’epidermide, si manifestava con allucinazioni considerate manifestazioni del diavolo. Altra malattia molto diffusa era l’Herpes Zoster, eruzione cutanea dolorosa di origine virale individuata lungo una striscia di un lato del corpo, come un serpente di fuoco. Il nome della malattia, infatti, deriva dalle parole greche, "serpente" e "cintura". Entrambe le malattie erano conosciute genericamente come “fuoco di sant’Antonio” in quanto caratterizzate da dolore neurologico e bruciore intenso sulla pelle simile alle ustioni delle fiamme dell’inferno. Esse si diffusero ripetutamente in forma epidemica soprattutto nel Medioevo e per favorirne la guarigione i malati invocavano il santo taumaturgo.

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Guarigione dei pellegrini

Non è un caso che la chiesa di sant’Antonio si trovi all’esterno del centro urbano di Fara, dove i malati in pellegrinaggio potevano essere più facilmente isolati per evitare il contagio, e spesso guarivano semplicemente cambiando dieta e sostituendo le proteine del pane di segale con quelle della carne di maiale offerto dagli Antoniani.  Come rimedio terapeutico, poi, i monaci impiegavano sulla pelle il lardo dei maiali allevati allo stato brado e che nel vagare liberamente, intoccabili, trovavano avanzi di cibo per villaggi. Anche per questo l’immagine iconografica rappresenta il santo con ai piedi il maiale - la cui carne contribuiva a una guarigione più rapida - oltre che con bastone tau, campanella del monaco questuante e nella mano la fiamma ardente della malattia, intesa come punizione e allo stesso tempo come potenza del bene purificatore. Col tempo il santo è stato considerato protettore del maiale e, per estensione, di tutti gli animali e della campagna: ritroviamo spesso la sua immagine votiva nelle stalle delle campagne abruzzesi. Pare inoltre che nella metà del XVI secolo gli antoniani diffusero una singolare leggenda secondo la quale il santo aveva miracolosamente guarito un porcellino zoppo. (Di NoIa, pag. 236). Il santo diventò così il protettore dell'animale e di tutti gli altri.

Il maialino di Sant'Antonio

Ne è derivata la tradizione di allevare il maialino detto “di Sant'Antonio”, contrassegnato da un fiocco rosso, che nel freddo dei giorni di gennaio veniva immolato e consumato fresco in piccolissima parte in una festa rituale, mentre il resto delle carni veniva trasformato in salsicce, prosciutti e coppe: un vero salvadanaio per l’economia familiare di cui rappresentava l’abbondanza e la grascia. Ancora oggi nelle piccole comunità montane abruzzesi l’uccisione del maiale è occasione di festa ed è consuetudine l’assenza da scuola per gli studenti che aiutano le famiglie.

Molto probabilmente da questa antica usanza derivano le moderne "maialate" (Primavera, pag. 210), convivi nei quali tutti i piatti sono a base di carne di maiale, il quale invece anticamente per essere consumato aveva bisogno di ritualità. Era infatti considerato animale impuro, come ancora oggi lo è per musulmani ed ebrei, perché entra in contatto con le potenze sotterranee scavando la terra in cerca di cibo, un atto eversivo che per il cristianesimo era il simbolo di sessualità sfrenata e di potenze demoniache. Ma viene addomesticato e “purificato” da sant’Antonio abate vincitore sulle tentazioni demoniache.

Suggestive derivazioni. Suggestivo poi è il riferimento al nome “maiale”: Omero nell’Odissea racconta del porcaio Eumeo che, dividendo le parti del maiale, ne offrì la prima alle Ninfe e a Ermete figlio di Maia per invocarli, e porse a Odisseo, appena tornato ad Itaca sotto le vesti di straniero, la parte più pregiata, la lombata. E ancora, tradizionalmente ogni primo maggio il dio del fuoco Vulcano offre in sacrificio alla dea Maia una scrofa gravida, in modo che anche la terra porti i frutti. Perciò si ipotizza che i nomi “maggio” e “maiale” derivino da Maia, come la Maiella, la nostra montagna Madre.

Una gara tra contrade

La Festa delle Farchie, con tutto il resto che ruota intorno ai giganti di canne, ha conservato negli anni il suo carattere ludico e allegro. In ognuna delle circa dodici contrade si comincia a lavorare all'inizio di ogni nuovo anno, con motivazioni profonde che la allontanano da qualsiasi forma di spettacolarizzazione. È una sinfonia di gesti rituali che si ripetono con maestria certosina, come a rimarcare la consapevole appartenenza a una cultura intrisa di devozione, simboli e richiami al mondo contadino. Interamente incentrata sull’operatività delle persone, l’abilità delle mani, la potenza fisica del gruppo. La fatica si legge sui volti concentrati e sudati.

Tutto parte dalla ricerca delle canne palustri. Sono gli uomini che scandagliano in modo furtivo gli ambienti fluviali, ognuno cercando di arrivare prima dei contradaioli rivali per trovare il materiale più bello e sano. Le diverse contrade, fino a non molto tempo fa, si contrastavano facendosi dispetti, rubandosi a vicenda le canne di notte o tagliando alle farchie altrui i “legami” di salice che le tiene insieme. Per questo motivo è nata l’usanza di vigilare sulla costruzione delle farchie, e nel frattempo il vicinato si incontra per mangiare dolci e bere vino, molto vino, in compagnia del fuoco tenuto acceso ininterrottamente con legna di quercia per riscaldarsi nelle notti freddi, e necessario a piegare il salice da annodare. Anche nei momenti di pausa ci si ritrova intorno al fuoco, insieme ai bambini che ascoltano le storie dei più vecchi e apprendono i primi segreti per confezionare una farchia in grado di reggersi in piedi, tradizione che riporta ai riti iniziatici. Le donne invece si dedicano alla preparazione dei dolci e dei cibi in generale. Così la farchia diventa una sorta di totem che può essere avvicinato solo dalle mani esperte dei contradaioli di appartenenza.  

Per circa 15 giorni il paese si anima di notte: grandi falò vengono accesi nelle contrade, lì dove in aie, slarghi o radure in prossimità delle abitazioni si trovano gli stand o teloni che proteggono le farchie dall’umidità. Soltanto la farchia della contrada "Fara centro" è preparata in piazza, dove viene montato lo stand.

Negli spazi all’aperto si scatena l’allegria intorno al fuoco, con bicchierate, abbuffate di crespelle, canti del Sant'Antonio e musica di “travucette”, l’organetto abruzzese. I costruttori scaldano sulle fiamme i rami di salice per agevolare la torsione del nodo. Sempre sullo stesso fuoco verrà poi fatta ardere, come gesto propiziatorio, la parte rimanente della farchia riportata dopo l’accensione in piazza.

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 Dalle contrade verso la piazza. Una volta terminata la preparazione, le farchie vengono trasportate in corteo partendo dalle contrade, innalzate e incendiate sul piazzale della chiesa di S. Antonio. Si uniscono al trasporto i contradaioli, gli amici e i turisti in una grande partecipazione popolare. Anche le nuove generazioni si lasciano coinvolgere.

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Una Festa maschia. È evidente il carattere "maschile" della festa, solo gli uomini sono preposti al confezionamento della farchia e solo alla discendenza maschile vengono trasmessi i segreti del mestiere, cogliendo modelli di comportamento che si tramandano da secoli. In fondo la canna e il salice rimandano a significati di fecondità e vigore, con il loro rapido accrescimento. La stessa forma della farchia ha carattere fallico, simbolo di forza, contiene in sé gli elementi essenziali della vita. Il suo destino si compie nell’essere bruciata: un sacrificio degli uomini alla divinità, dando in questo caso al fuoco un valore sacrale e generante. 

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Il gruppo maschile, terminata la preparazione della farchia, si recava in ogni casa ed era accolto con l'offerta delle crespelle, serpentone, cannoli, zeppolette e cauciune (vedi ricette). Oggi si organizzano tavolate collettive, vicino al luogo di preparazione, in cui oltre ai dolci tradizionali, si gustano piatti di maccheroni al ragù e insaccati di maiale preparati a turno dalle famiglie delle contrade, offerti in segno di devozione ai passanti.

Il “serpentone”, dolce inconsueto. Anche il dolce tradizionale della festa di S. Antonio abate, il serpentone (vedi ricetta), riconduce all’iconografia del santo, con il suo bordone sormontato da croce Tau, segno che gli Ebrei posero sugli stipiti delle porte prima dell’esodo dall’Egitto. Durante la traversata nel deserto, per preservare il popolo d’Israele dal morso dei rettili velenosi, Mosè collocò su un palo della stessa forma a tau un serpente di bronzo da guardare. L’immagine ricorda il bastone di Esculapio, simbolo della professione medica, che potrebbe rappresentare una tecnica per curare gli ebrei durante la cattività in Egitto, colpiti da un parassita annidato sotto la pelle.

Il dolce potrebbe fare riferimento anche alla striscia ustionante dell’Herpes Zoster sul corpo, ma pure al culto arboreo sovrapponibile al mito di fondazione della Festa.

Li "cannune" 'nghé la creme. Altro dolce della Festa sono i cannoli con la crema (vedi ricetta) che continuano ad essere preparati con la stessa ricetta da molti anni. Vengono chiamati dalle donne "farchiette", sia perché ricordano la forma delle farchie, sia perché vengono realizzati con piccoli cilindri di canne lunghi 15-20 centimetri. 

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È ora di partire. Nel primo pomeriggio del 16 gennaio le farchie, ormai raramente portate a spalla, vengono decorate con bandierine tricolori e caricate sui trattori ricoperti da rami di edera e fiocchi rossi, mentre il coro intona le litanie lauretane per affidare i farchiaioli alla protezione del santo nelle delicate fasi di trasporto e innalzamento. Il suonatore di “travucette” si siede a cavalcioni sulla farchia mentre un tamburello apre il corteo. Arrivati davanti alla chiesa di S. Antonio avviene la “presentazione” delle farchie al santo. I contradaioli scaricano le farchie poggiandole sul suolo. In questa fase non priva di pericoli, fondamentali sono i comandi del capofarchia che coordina le fasi di innalzamento. Quando tutte le farchie sono in piedi, come a ricreare il bosco, si procede alla loro accensione con i mortaretti posizionati sopra la cima, tra la paglia. Ancora una volta vengono esibite la forza muscolare e l’abilità nel manovrare funi e pali incrociati chiamati “filagne”, utili ad alzare diversi quintali di peso. Per questo l’esperienza e la perizia tecnica sono requisiti fondamentali di tutte le operazioni rituali, dalla prima all’ultima.

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Contemporaneamente, la statua di S. Antonio viene portata davanti al piazzale della chiesa affinché il santo diffonda, tramite essa, la benedizione divina.

Una volta incendiate tutte le farchie, con le loro teste infuocate e scintillanti e il fumo che si propaga roseo nell’aria ormai umida, lo spettacolo che si presenta all’imbrunire è di quelli da incorniciare tra i ricordi. L’aria si fa acre, ma il vin brulè addolcisce la bocca e riscalda il corpo. Arrivato così al suo culmine, la festa cala di tono. Le farchie consumatesi per metà, vengono abbattute e riportate alla base di partenza, unite al fuoco della propria contrada per finire di consumarsi. Intanto continuano i bagordi fino a tardi. Il ricordo degli odori, dei rumori della festa, gli stimoli dell’immaginazione accompagneranno i partecipanti per molto tempo ancora.

Un totem di canne chiamato Farchia

La farchia è il risultato di un lungo lavoro svolto dai contradaioli con amore e dedizione, che coinvolge intere famiglie raccolte intorno a un grande fuoco alimentato costantemente, principalmente con legna di quercia.

L'origine etimologica della parola “farchia” potrebbe derivare da “farchjie”, canna con cui si impagliavano le sedie o si bruciavano le setole del maiale. In generale in Abruzzo la “farchia” indica una fiaccola di canne che brucia a mo’ di torcia, spesso portata in processione religiosa, con la quale si accompagnava la statua del santo protettore dalla chiesa rurale all'interno di quella parrocchiale, sita nel centro antico.

La farchia si prepara con elementi simbolici: si inizia dall’anima costituita da un palo di legno contornato da canne legate tra loro ottenendo la farchietta. Successivamente si ingrossa il diametro con altre canne sino ad allargarne le dimensioni. L'usanza delle farchiette iniziò prima del 1900 per illuminare le strade durante la processione, successivamente vennero ingrossate e rese più robuste affinché si reggessero da sole una volta poggiate sul terreno.

Le farchie di Fara Filiorum Petri sono dei fasci cilindrici di canne, legati con rami di salice rosso, dal diametro di circa 80 centimetri e un’altezza di circa 8 metri, dimensioni regolamentate dal Comune. I suoi elementi sono tipici del paesaggio agrario, gli stessi utilizzati per gli utensili da lavoro. Mentre i nomi con cui vengono chiamate le varie parti della struttura - anima, pancia, fusto, cima - ricordano l’uomo con la sua anima, testa e busto, un antropomorfismo molto sentito durante la fase di costruzione.

Durante la lavorazione della farchia destano molta curiosità l'assemblaggio delle canne scivolose e flessibili e l'esecuzione dei nodi con i rami di salice rosso. All’inizio viene scelto un palo di legno dritto, l’anima della farchia, che viene rivestito da fasci di canne per aumentarne il diametro. Per mantenere assemblate le due parti si effettuano due legature con due funi chiamate “funacchie” che vengono strette con forza e poi sostituite da rami appena raccolti di salice, torti dopo essere stati ammorbiditi e piegati alla fiamma. Questi rami vengono poi annodati sapientemente con l’aiuto di una grossa fune unta di strutto di maiale. Man mano che la farchia cresce, le canne vengono sempre più pressate facendo in modo di non far notare i punti di congiunzione, allineando i nodi a una distanza regolare. Ma solo con l’innalzamento della farchia sarà evidente la maestria di chi le ha saputo dare una perfetta forma cilindrica che, se viene meno, presenterà una sporgenza chiamata “panze” e sarà oggetto di derisione da parte degli altri contradaioli.

Il palo-tronco che fa da sostegno è quindi l'essenza della farchia che richiama la forma di un albero, annoverando così la festa tra i riti legati al culto degli alberi che, però, ci riporta ancora una volta a sant’Antonio. La leggenda narra di querce trasformate dal santo in fiamme vive per spaventare i soldati francesi: le querce grazie all’intervento del santo sbarrarono il passaggio agli invasori proteggendo l'intera comunità.

 

Il mito di fondazione della Festa delle Farchie racconta di un miracolo avvenuto per intercessione di sant’Antonio al tempo dell'invasione giacobina francese del 1799. All'epoca Fara Filiorum Petri era protetta da un grande querceto. Risalendo da Bucchianico per dirigersi verso Guardiagrele, i Francesi pensarono di occupare anche Fara, ma l'apparizione di S. Antonio nelle vesti di un grande generale dalla barba bianca li fermò: il santo intimò alle truppe di non oltrepassare la selva ma, rifiutandosi queste di obbedire, trasformò gli alberi in immense fiaccole, spaventandole.
 

L'assalto dei Francesi è rintracciabile in due documenti archivistici che avvalorano con fondamento storico la tradizione orale popolare. Il primo documento notarile racconta di un comandante della resistenza antifrancese locale, che il 25 gennaio 1799, saputo di un imminente attacco dei francesi a Fara, organizzò una resistenza di 400 tra uomini e donne armati. Questi si recarono nel territorio di Fara e uccisero 17 francesi che vennero poi qui sepolti.

L'altro documento redatto in Fara dal notaio Lupiani Ermenegildo di Pretoro attesta invece le terribili ritorsioni che il comandante della Provincia d'Abruzzo, Coutard, minacciò di fare a tutta la popolazione per l'uccisione di quei francesi. Ma la mediazione della "Comune" e del cavalier Pietro Sterlich riuscì a commutare la strage minacciata a tutto il paese in pena pecuniaria. L'anno dopo, il 17 gennaio, festività di S. Antonio Abate, gli amministratori a perpetua memoria redassero l'atto pubblico, forse con l'intento di ringraziare il Santo patrono dello scampato pericolo. Il santo, perciò, viene spesso considerato di parte borbonica e antifrancese. Presso i contadini, specialmente dopo il ritorno dei Borboni avvenuto nel 1815, la venerazione al santo aumentò fino al punto di dedicargli le farchie e una festa popolare. Invocato, poi, preserva dagli incendi e domina i demoni.

 

Il culto arboreo. Al mito degli alberi incendiati dal santo si sovrappone quello del culto arboreo che ha avuto molto peso nell’antichità e che affidava al bosco un ruolo protettivo e sacrale, poi trasferito al santo mostratosi in grado di trasformare gli alberi in fiamme, quasi con gesto magico, mostrando la sua potenza di sottomissione degli spiriti degli alberi. Il richiamo è anche all’Albero della Vita al quale si contrappone il serpente: l’uomo ricerca l’immortalità contenuta in esso, ma il serpente gliene impedisce l’accesso nella maggior parte delle mitologie.

I pani di Sant'Antonio e la benedizione degli animali

Altro rito importante legato alla Festa è la benedizione del pane e degli animali che ha luogo durante la Messa solenne del 17 gennaio alle ore 11, mentre arde un fuoco. Alcuni giorni prima il comitato festa usa far cuocere da alcuni fornai centinaia di rosette di pane che vengono benedette durante la Messa. I pani vengono poi distribuiti a tutte le famiglie, una parte viene smollicata nelle prebende destinate agli animali, mentre i carboni del fuoco sono portati dai fedeli a casa e gettati nel focolare domestico.  

La questua assume un significato ben più complesso della semplice raccolta dei fondi necessari a finanziare la festa. Un'azione di gruppo che vedeva la prima fase incentrata sul percorso di un carro ornato - il Carro dell'Arriffe - per le contrade su cui venivano posti in bella mostra i prodotti dell'offerta e poi, come seconda fase, la vendita all'incanto dei prodotti all’antivigilia della festa di luglio con il suo carico di forza socializzante. Oggi con l'assenza delle aie o di ricoveri di tipo agricolo, la cena viene organizzata nei ristoranti faresi secondo un menu rimasto sostanzialmente inalterato.
Al tradizionale spezzatino di fegato d'agnello con piselli e uovo sbattuto, si accompagnano le sagne e fagioli, coniglio sotto il coppo oppure le fave crude con pane e olio d'oliva.

 

Letture consigliate:

Di Nola, Alfonso Maria, Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna in Italia, 1976

Lucio Biancatelli, Gino Primavera, La cucina della Maiella. Storia e ricette, ORME ǀ TARKA, 2014

S. ANTONIO ABATE E LE FARCHIE in Fara Filiorum Petri, Edita dall’Amministrazione Comunale di Fara Filiorum Petri con il contributo della Provincia di Chieti, prefazione di Giuliano Davide Di Menna. Il lavoro svolto deriva dall'osservazione della Festa nelle edizioni comprese tra il 1993 e 2000. Oltre alla partecipazione diretta alla festa, molte informazioni sono state ottenute con interviste a persone di Fara rilasciate anche in altri periodi dell'anno.

Antonio Corrado, Serena Di Fulvio, Sandro D’Orazio, Dalla terra al fuoco. Viaggio tra sacro e profano a Fara Filiorum Petri Paese delle farchie e del miracolo di Sant’Antonio Abate, D’Abruzzo Libri Edizioni Menabò, 2013

Feste e Riti in Abruzzo, da Illustrazione Abruzzese – asterischi n.2, ottobre – novembre 1984, Venerio Luigi De Giorgi Editore

Le feste di Sant’Antonio in Abruzzo: rito dei fuochi tra devozione e tradizione, Loredana Lombardo, in Abruzzoweb, 17 Gennaio 2019

Foto credits: Ascanio Buccella, Antonio Corrado

Sant'Antonio, una festa in comune

La tradizione della Festa delle Farchie si rinnova in altri paesi di Abruzzo Marrucino: a Roccamontepiano, in contrada Terranova, con le rappresentazioni teatrali di strada e i fasci di canne incendiate, a Pretoro e Casalincontrada con sfilata dei carri e rappresentazioni allegoriche della vita del santo.

A San Martino sulla Marruccina tale era la devozione locale per Sant'Antonio Abate che venne costruita un’altra chiesetta, nei pressi della Marrucina, chiamata Sant'Antoniuccio, perché più piccola di quella originaria che sorgeva non lontano.

Racconta il presidente della Corporazione Sancti Martini, Mauro Di Federico: “La tradizione del fuoco ha sempre convissuto con il culto di Sant'Antonio abate. I fuochi accesi in suo onore - cataste di legno ammassate, non di grandi dimensioni - nei pressi delle chiese martinesi, venivano benedetti e ognuno portava a casa dei carboni con i quali "marchiare" gli animali domestici per proteggerli da malattie e carestie. Nel 1892 in paese era già forte e diffusa la tradizione delle farchie, come testimoniano anche le memorie dell'abate curato Giuseppe Di Paolo: le varie contrade campestri e i rioni del centro storico preparavano le pire in numero di 13 per issarle nella pianura che oggi è occupata dal parco comunale "La Maielletta". L'abate curato era solito uscire dal borgo fortificato per andare a benedirle, lasciando la popolazione, subito dopo la loro accensione, a libagioni e festeggiamenti. La tradizione rimase molto forte sino agli anni '30, sopravvivendo dopo la Seconda Guerra Mondiale solo in alcune contrade. Negli ultimi decenni qui meritevolmente un gruppo di famiglie mantiene la tradizione. Ma come si passò a San Martino sulla Marrucina dai fuochi benedetti alle farchie? Questo è ancora argomento di studio... ma ci sono varie piste da seguire nei documenti antichi”.

Ugo La Pietra, artista, architetto e teorico italiano, in "Fatto ad arte. Né arte né design", nel 1977, dedicò un fascicolo alla Festa delle Farchie:

Ugo la Pietra_fascicolo

la festa delle farchie

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