Pretoro

Tra le pietre e i legni dei boschi della Maiella si nasconde una storia che ha il sapore della dolcezza e dell’incanto, che nasce dal coraggio e dal cuore di un uomo minuto, conosciuto come “l’uomo di legno”. A dargli l’epiteto è stato Fabrizio Fanciulli, autore di un libro dal titolo omonimo. Il creatore e la sua creatura. Indissolubilmente legati in un’unica narrazione, animati dallo stesso respiro, i loro cuori battono all’unisono. L’uno non può essere compreso senza lo sguardo dell’altro.

Entrambi di Pretoro, piccolo borgo arroccato sulla Maiella, sono i testimoni di un paesaggio selvaggio, frequentato dal lupo, protetto anche in un’area faunistica, ricco di boschi, acqua, anfratti naturali, grotte, conservato nella sua integrità così da mostrarsi oggi simile all’antichità, con usi e costumi che si tramandano di padre in figlio, nel solco di una memoria storica indelebile. Condividono il valore della fratellanza, una visione incantata della vita, la tensione lirica verso l’umanità.

Un viaggio nei ricordi

Fabrizio Fanciulli con Mastro Tonino.

Il loro paese, Pretoro, conserva tra i boschi e le acque del fiume Foro i mulini rupestri, rari esempi di architettura industriale, in funzione fino a non molto tempo fa. Producevano farina di grano tenero per il pane e di grano duro per la pasta e farine provenienti da diversi tipi di cereali. Le prime testimonianze scritte risalgono al 1059: trattano della donazione ai monaci benedettini di San Salvatore a Maiella, e ci confermano che il luogo è ricco di storia. La Maiella è un crogiolo di storia religiosa, tradizioni popolari, beni archeologici, paesaggi unici, vette che sfiorano i tremila metri, patrimonio di memorie storiche ed ambientali che hanno accompagnato gli uomini di questa terra nel faticoso cammino dell’esistenza e in questo viaggio hanno lasciato orme originali e una eredità ricca di spiritualità e dignità umana.

Colpisce, Pretoro, per gli scorci e i vicoli del centro storico, per l’intrigo di strade strette e archi, per le innumerevoli scale ripide che collegano angoli nascosti, per le abitazioni incastonate l’una sull’altra. Un tempo le case erano scavate nella roccia, abitate anche da animali che occupavano la parte ipogea e aiutavano a mantenere il calore nei rigidi inverni. Quasi tutti, prima dell’arrivo dell’energia elettrica, avevano un rudimentale tornio a pedale. Occupava poco spazio e spesso veniva collocato in un angolo della stalla. Nei primi dell’Ottocento si lavorava con la luce dei lumi ad olio e in seguito anche a petrolio. Allora, come oggi, nell’aria il profumo di legna fresca per riscaldare le case e profumi intensi di buona cucina tradizionale.

È a Pretoro che Fanciulli, tornato dalla Svizzera quando era bambino, inizia il suo viaggio dentro i ricordi e ne ferma le sensazioni nel suo libro: “in una fredda giornata di gennaio si sente un ticchettio regolare, un ritmato pulsare di qualcuno intento a scandire il tempo. Un tempo che in questo borgo pare essersi fermato. La neve inizia a scendere copiosa. Sento i profumi di cucina, ricordo mia madre che preparava intorno al caminetto i piatti della tradizione. I racconti dei nonni mi tornano alla mente, mi trascinano nel loro mondo in cui tutto è rassicurante e saggio, anche la paura. Le madri intrecciavano i fili sui telai, i padri in un angolo lavoravano il legno con torni a pedali e i suoni di quelle case erano vere e proprie melodie. I ragazzini sostavano a lungo davanti a questi fusari, incantati dalla velocità con cui dalle mani uscivano capolavori. La tormenta di neve è sempre più forte. Decido di lasciare il tepore del caminetto della mia casa e mi incammino per le rue del paese. Il cammino è sempre più erto, verso la parte più alta del paese, dove ho vissuto da ragazzino. Arrivo finalmente alla meta, lui è lì, nascosto dalle sue opere, in un angolo vedo la fiamma di una piccola candela. <Mastro Tonino avete bisogno di qualcosa?>. <Ho bisogno solo della corrente elettrica, altrimenti non posso lavorare>. Quell’uomo come pochi: poetico, sognatore, surreale. Distante e distaccato dal mondo normale. Mi incuriosiva e intimoriva. Un modo anche distante di essere vicino”. 

"L'uomo di legno"

“È la voce dell’ultimo dei fusari...”.

Antonio Palmerio, per tutti Mastro Tonino, è nato a Pretoro il 15 gennaio del 1931, nella casa dove è sempre vissuto e dove, al piano inferiore, si trova la sua bottega, nel borgo medievale. Sembra ancora di sentirlo lavorare, immerso nell’odore dei legni e trucioli, su un tappeto morbido di segatura. Capelli bianchi e viso solcato dalle rughe, si faceva fatica a distinguerlo in mezzo alle sue tantissime opere sparse e ammucchiate un po’ a caso, con le quali si mimetizzava. A malapena ci si riusciva a muovere in quel fondaco con la porta sempre aperta: lo si chiamava e lui spuntava fuori dal suo mondo, tanto vicino quanto lontano. In un angolo si trova ancora il suo Pinocchio vestito, il burattino tanto amato dai bambini, che Fanciulli immaginava parlare e litigare con Mastro Tonino, divenuto nella sua fantasia Mastro Geppetto. L’autore stesso sembra identificarsi con Pinocchio, alla ricerca dell’identità, del padre, delle proprie radici. Nel suo viaggio è approdato nel laboratorio di mastro Tonino, come fosse l’interno della pancia della balena, in cui finalmente è riuscito a incontrare nell’intimità il suo Geppetto, a ritrovarlo nel silenzio dell’isolamento. Nell’incontro disvelatore, da sempre sognato, Fanciulli ha ricevuto in eredità, come per magia, i ricordi di mastro Tonino per restituirli al mondo, regalandoci la sensazione di rivivere la favola.  

Divenuto grande Fanciulli, ogni volta che varcava la soglia del laboratorio di mastro Palmerio, aveva la percezione di entrare in un mondo “fatto di altri tempi, un mondo di racconti che portano in luoghi e vicende lontane”, amplificati dal silenzio ovattato del laboratorio, rotto soltanto dal rumore del tornio elettrico: “È la voce dell’ultimo dei fusari, è il canto dell’uomo di legno”.

Un’ammirazione particolare legava lo scrittore a Palmerio, e non solo per la sua maestria artigiana. A Pretoro sono tanti gli artigiani: c'è chi impaglia le sedie, c'è lo scalpellino della pietra e chi costruisce lo strumento con cui il paese è diventato famoso nel mondo, il “carratore” o chitarra per fare i tipici spaghetti abruzzesi, un telaio di legno di faggio con corde in acciaio che permette di tirare la pasta. Alcuni storici ritengono che a Pretoro la lavorazione del legno al tornio sia antichissima. È tradizione che tale arte fosse esercitata prima dell’anno Mille dai monaci benedettini delle abbazie abruzzesi di San Salvatore e di San Liberatore a Maiella, che poi l’hanno diffusa sul territorio. A Pretoro la memoria si tramanda attraverso l’uso delle mani, invece la memoria di mastro Tonino tornerà a vivere ogni volta che desidereremo intraprendere un viaggio nel tempo e nello spazio, volendo conoscere la storia e l’anima della Maiella.   

Il maestro tornitore ci ha lasciati il 22 dicembre del 2021, aveva 90 anni e tanta tenerezza da insegnare. Ma ancora prima la sua storia era stata raccontata nel libro scritto da Fabrizio Fanciulli, “L’uomo di legno”, edito da Sigraf nel 2018, premiato al Golden Books Award 2019 di Napoli, all’Ut Pictura Poesis 2019 di Firenze. Ha ricevuto il Premio Speciale Pugliola "Narrativa per ragazzi" 2020 di La Spezia e il Premio Parco Maiella 2020 di Abbateggio. L’autore ha voluto raccontare e far conoscere, soprattutto alle nuove generazioni, il profilo di un uomo semplice e ancorato al suo amato mestiere. “Uomo di legno” perché, come un tronco d’albero, è costituito dalla corteccia, la parte visibile protettiva; più all’interno si trova il libro, lo spessore sottile che serve a proteggere l’albero dall’umidità e in cui scorre la linfa. Invece la sua creatività è come il cambio, lo strato dell’albero che si rinnova formando l’alburno, legno tenero che provoca l’accrescimento dello spessore del tronco formando gli anelli annuali, chiari e più spessi in primavera, ridotti e scuri in autunno. Il chiaro e lo scuro, come i momenti della sua vita, a volte tragici a volte luminosi. Il durame, la parte centrale, il midollo, compatto, duro e scuro: è il cuore del tronco e il sostegno della pianta, come la forza di mastro Tonino, rimasto sempre in piedi nonostante gli eventi tragici e dolorosi che hanno attraversato la sua vita.

Il legame tra l'uomo e la natura sulla Maiella

San Bartolomeo

Continua, dunque, a essere riconoscibile l’identificazione dell’uomo con la natura che lo circonda, e ciò fa di questa montagna l’ultima appendice di quel Medioevo spirituale che l’ha consacrata come luogo privilegiato di meditazione. L’identificazione individuata da Fanciulli tra l’uomo Tonino e la Natura, in un’integrazione di profonda armonia, ci riporta all’amore per la natura di un altro grande uomo della Maiella, Pietro Angelerio, poi Papa Celestino V e Santo: “Il rifiorire di uno stelo secco, lo sgorgare di una sorgente, l’imperioso comando a un serpente sono episodi che divengono appendici naturali del santo che vive in simbiosi con il creato”. Anche lui artigiano, soleva intrecciare giunchi per fare canestri, arte nella quale eccelleva. Ma Pietro, detto “da Morrone”, si dedicava anche alla coltivazione dell’orto. Le sue origini contadine lo portarono ad organizzare la società agro-pastorale che con lui assunse autocoscienza economica e spirituale. “Portava indosso solo abiti ruvidi e di misera stoffa che, a volte, a malapena nascondevano un cilicio di crine di cavallo pieno di nodi”, è scritto nella causa di canonizzazione.

Lui e i primi eremiti si dedicarono alla bonifica dei terreni abbandonati, a contrastare la miseria e lo spopolamento. Portarono cultura in un ambiente apparentemente isolato. Le numerose presenze romitiche diffuse sul territorio contrapponevano alla staticità delle grandi abbazie un monachesimo itinerante e diffuso. La loro presenza diede fama di santità alla Maiella, chiamata perciò da Francesco Petrarca “Domus Christi”. Se da un lato i complessi benedettini e cistercensi avviarono una rinascita dell’economia rurale, sconfissero la carestia e diedero inizio al processo di incastellamento che rese irreversibile la presenza dell’uomo, dall’altro ai monaci eremiti che si isolavano in luoghi impervi, va riconosciuto di aver riconquistato, nel misticismo, la sobrietà, valore moderno di quella Chiesa in cerca di rinnovamento. I monaci “riuscirono a salvare l’Europa con la forza della fede. Lo fecero nel momento peggiore, negli anni di violenza e anarchia che seguirono la caduta dell’Impero Romano, quando le invasioni erano una cosa seria. Salvarono una cultura millenaria, rimisero in ordine un territorio devastato e in preda all’abbandono. Costruirono dei formidabili presidi di resistenza alla dissoluzione. (Questi luoghi e persone) continuano a tenere il filo dei valori perduti, in un viaggio che è prima di tutto una navigazione interiore”. (Paolo Rumiz)

La stessa dimensione spirituale sapeva orientare la politica e l’economia. La durezza del vivere quotidiano e le privazioni a cui si sottoponevano questi eremiti conferiva loro un’aura di santità, perciò furono seguiti come guide spirituali, oltre che come riferimenti materiali delle comunità. Pietro Angelerio fu il simbolo della Chiesa rinnovata spiritualmente e l’anima della Maiella. Lui e gli altri eremiti fecero per le zone montane, per le comunità pastorali dei pianori alti, ciò che i grandi cenobi fecero nelle zone vallive: unirono intorno a loro comunità altrimenti abbandonate a sé stesse, insegnarono i rudimenti della medicina naturale. Ripristinarono i grandi sentieri tratturali, le “Calles” romane abbandonate e inselvatichite dopo le guerre gotico-bizantine e la calata dei longobardi, che sarebbero divenuti le future “autostrade dell’erba”. In seguito, i normanni favorirono il riuso di questi tratturi e diedero impulso al ritorno della pastorizia, ma furono le comunità aggregate intorno ai cenobi o ai singoli eremiti le protagoniste nella rinascita dell’antica consuetudine della transumanza verso il Tavoliere pugliese. Lo testimoniano gli antichi resti di romitori e piccoli cenobi lungo le grandi vie tratturali che attraversano la Maiella e i grandi altopiani. Anche Le grotte romitali, nelle vicinanze del tratturo Centurelle-Montesecco, difficilmente raggiungibili, situate ad altezze elevate e prive di strade di accesso, rimangono i testimoni del fervore religioso sulla Maiella nei secoli del Medioevo.

Nel 1300 aumentò enormemente la produzione della lana in conseguenza dell’elevata richiesta dei mercati. Sorsero piccole industrie manifatturiere lungo il fiume Aventino e la Val Pescara. La nuova capacità di acquisto favorì la diversificazione dei prodotti commerciali, soprattutto dell’artigianato locale. Pretoro esportava gli utensili da cucina e le sedie in legno di faggio. Rimaneva la pastorizia, però, la vera fonte di ricchezza. Nel 1447 fu istituita la Regia dogana che regolamentò e rese più sicuri gli spostamenti delle greggi e degli uomini dall’Abruzzo al Tavoliere. L’intera comunità della Maiella partecipava alla transumanza attraverso i tratturi, tratturelli e bracci lungo i quali si intrecciava un importante scambio di merci, come lana e formaggi, e l’incontro tra uomini e culture diverse. Artigiani comaschi e bergamaschi, attratti dai buoni guadagni, si riversarono soprattutto nella zona degli altopiani in cui portarono nuove attività ed ebbero un influsso notevole sulla lavorazione del legno, nelle costruzioni e introdussero l’arte del merletto a tombolo, realizzato con i fuselli di legno. 

Tonino e i segni della guerra

Mastro Tonino

La grotta dell’Eremita di Pretoro, quella di Rapino, Pennapiedimonte e altre, avevano il pregio di essere cavità naturali, senza bisogno di particolari cure o modifiche costruttive, erano luoghi ideali di contemplazione anche per Pietro da Morrone che amava la solitudine e i boschi. In quella stessa grotta dell’Eremita, come in quella di Fra’ Diavolo, mastro Tonino si rifugiava con la famiglia durante i bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Aveva 13 anni e il dramma della guerra lo aveva già segnato: “non abbiamo nulla, solo una coperta e qualche pentolino. Ci unisce la fede, come speranza di una prossima salvezza, spirito di collaborazione e tanta miseria”. Fa freddo, la fame è un tormento. Il rimbombo delle esplosioni che Tonino non dimenticherà mai, le devastazioni, i saccheggi, la brutalità, lo sfollamento sono incisi sulla sua pelle, un marchio indelebile nell’anima che ha segnato il suo avvenire. Sorpreso con i genitori nelle grotte sulla montagna, fu destinato al campo di concentramento di Chieti Scalo. In seguito furono caricati su treni merci verso Roma, i pidocchi erano ovunque. Riescono con scaltrezza a non risalire sul treno nella sosta di Avezzano e a rifugiarsi presso uno zio: “a Tivoli abbiamo trovato la nostra salvezza, lavorando in segheria per i tedeschi”. E poi ancora bombardamenti, il rumore della guerra, la paura, le atrocità. Fu costretto dal plotone tedesco ad assistere all’esecuzione di una spia, lui stesso sospettato di complicità, scioccato, perde temporaneamente l’uso della parola. Tornarono a Pretoro a piedi con una bicicletta per trasportare le loro poche cose, con il coprifuoco, assistendo a sparatorie contro civili inermi e all’uccisione di due bambine. Al rientro trovarono la casa saccheggiata dai vicini, la miseria che non ha pietà di nessuno. La fame lo costringeva a catturare gli uccelli con una fionda rudimentale per nutrirsi. I tedeschi rimasti in paese, prima della ritirata, fanno saltare i pozzi d’acqua. Di nuovo bombardamenti, di nuovo il rifugio nella grotta, questa volta vicino al fiume Foro. La salvezza ritrovata dentro una grotta, l’unico luogo dove Tonino si sente al sicuro, come ritrovarsi nell’utero materno. Allo stesso modo il laboratorio artigianale, la sua casa-bottega, per mastro Tonino è stato il suo rifugio, la caverna dove trovare riparo dall’incognito. Nella sua Pretoro ha trovato il medicamento alle ferite. Si è immerso nella forza creatrice ed è rimasto aggrappato alla Maiella che, intrisa di sacralità, gli ha forgiato lo spirito in una perenne tensione verso un altrove che mastro Tonino ha immaginato e riprodotto. I suoi oggetti entrano in armonia con la bellezza e il carattere della montagna. Ampiezze panoramiche e immensità degli spazi vuoti, ricchezza delle acque fonte di vita e dei boschi dalla luce misteriosa, hanno favorito il lavoro contemplativo tipico dell’artigiano.

Gli piaceva lavorare senza sosta, come fosse in perenne attesa di qualcosa, della prossima immaginazione, di una nuova scoperta, di una inaspettata intuizione. E mentre realizzava capolavori, pregava, come quando si riparava nelle grotte. Le sue opere sono preghiere scolpite, che hanno fatto della sua vita un capolavoro. Torniva, intagliava, misurava, costruiva e aspettava di dimenticare, dimenticare il dolore, i cattivi ricordi, sempre troppo vivi.

Falegname sin da bambino

Mastro Tonino

Ma l’uomo di legno, suo malgrado, aveva una memoria di ferro. In fondo sin da piccolo gli piaceva leggere, scrivere e studiare. Nel febbraio del 1942, all’età di 11 anni, scrisse una poesia e conserva il quaderno di scuola come un’altra delle sue opere:

È l’inverno e fa freddo

Tira il vento, oscuro il cielo

Dio che gelo

Come è triste nell’aspetto

L’alberetto…

Iniziò a lavorare il legno con il tornio a pedale all'età di sette anni, prima ancora che arrivasse in paese l'energia elettrica, nel 1939. Il suono che produceva lo strumento durante l’uso diventava melodia alle sue orecchie. Con il tornio a pedale, imparando dal padre Giuseppe, realizzava fusi, fischietti, le “cannelle”, cioè rubinetti per spillare il vino dalle botti. Insieme a lui lavorava la sera vicino al camino con la luce del lume a petrolio, facevano fischietti e li accordavano. Durante la stagione fredda, con la pioggia e la neve, realizzavano anche cucchiai, mestoli, mortai e altri utensili da cucina, oggetti di scambio con cui barattare uova, pomodori, fichi secchi, patate, zucchine, caffè. Si cimentavano a produrre bocchini per fumare, le “mazzelle”, bacchette per fare la calza, gli aghi, le zampogne, i pifferi. Costruivano anche utensili su misura. Con l’arrivo della primavera il padre partiva per vendere la merce come ambulante, verso Roma e Tivoli. Tonino rimaneva a casa e torniva pezzi di legno, un lavoro che assomigliava a un gioco, si divertiva in questo modo, tralasciando di seguire i compagni in attività all’aperto.

Soltanto al termine del conflitto mondiale la sua vita prese un ritmo più regolare. Aveva 14 anni, partiva con il padre da Pretoro la mattina e arrivava a Tagliacozzo la sera: “La bicicletta per me non è stato un gioco o un passatempo, bensì una necessità; il più delle volte senza copertoni, era attrezzata per lunghi viaggi, con due portapacchi, uno davanti e uno dietro. Riuscivo a portare fino a 40 chili di manufatti in legno da me torniti. Stavo via finché vendevo tutto, a volte rientravo anche dopo un mese”. Lavorava anche di notte con la luce del lume ad olio. Quando il padre inizia a lavorare in campagna per la raccolta del grano, lui continua a usare il tornio che diventa via via il passatempo preferito. Raccoglie pezzi di legno nel bosco, li ripulisce e dà loro forma. Con la mamma Maria Rosa si sposta a piedi al mattino presto, riprende a girare con la bicicletta per masserie e nei paesi limitrofi per vendere oggetti domestici o scambiarli con altri prodotti.

La miseria del dopoguerra

I fusi per filare la lana.

Nel ’46 inizia la ricostruzione, ma la terra è arsa a causa di una eccezionale siccità e la famiglia Palmerio soffre ancora miseria e carestia. Le cause delle pessime condizioni del terreno sono da ricercare nei secoli precedenti. La società feudale, che nella proprietà trovava un senso di aggregazione, rimase vivace fino alla fine del ‘600. Agli inizi del ‘700 ci furono sulla Maiella vari terremoti molto forti. Pretoro e i paesi limitrofi risultarono tra i Comuni più colpiti. Alcuni paesi si riprenderanno solo in epoche recenti. Pur in condizioni di disagio, il fisco regio non concesse esenzioni per l’uso del tratturo fino in Puglia, e l’invasione austriaca, seppur indirettamente, impedì l’opera di ricostruzione in tempi brevi. Nella condizione di povertà che si era creata, inizia un processo di distruzioni boschive che per tutto il Settecento, ma ancora di più nella prima metà dell’Ottocento, sfociò nel taglio selvaggio e indiscriminato dei boschi pedemontani e di quota, che non solo finì per aggravare le condizioni economiche della gente, ma introdusse nuovi problemi dovuti alla dilavazione delle superfici inclinate e a dissesti idrogeologici, con danni irreparabili per interi centri abitati. L’immiserimento della gente montana fu, dunque, conseguenza del calo della rendita armentaria, che per secoli aveva reso florida l’economia, e del ripetersi ciclico di grandi disastri naturali che fiaccarono la capacità stessa dei montanari di produrre beni di sussistenza.  Il leggero incremento demografico dopo il 1706 sulla Maiella contribuì ad aggravare i problemi per il difficile approvvigionamento di derrate alimentari, divenute cronicamente insufficienti. Il susseguirsi di carestie per tutta la seconda metà del Settecento fino all’Ottocento, ci restituisce il quadro di miseria che colpì gran parte degli abitanti delle zone montane. Fu una necessità naturale quindi, per lo stato di bisogno creatosi, iniziare a disboscare e dissodare i terreni per allargare le aree di produzione destinate alle derrate alimentari. L’introduzione della coltivazione della patata contribuì alla coltivazione intensiva dei terreni, strappati alle macchie arbustive e ai boschi. In seguito, con l’introduzione napoleonica della riforma terriera e la concessione ai locali pugliesi di usufruire delle aree del Tavoliere destinate al pascolo per seminare grandi distese di cereali, venne a mancare del tutto la risorsa armentizia e si iniziò in modo sistematico a mettere a coltura le terre montane. Da questo momento ebbe fine il lungo percorso del sistema economico su cui si era retta la Maiella sin dai tempi di Pietro da Morrone. Non restò altro ai pastori e ai piccoli proprietari che trasformarsi in agricoltori chiedendo ai Comuni il bene della terra con il livellamento di alcune aree della Maiella, coltivata così fino ai mille metri e depauperata delle sue ricchezze boschive. Questo fenomeno riprende in modo massiccio dal 1940 al 1945, durante la Seconda guerra mondiale. La coltivazione forzata ebbe gravi ripercussioni: i pendii e i piccoli campi d’altura posti a colture intensive, per l’inaridimento della terra, produssero sempre meno fino a esaurirsi, per cui non vi era terreno sufficiente a sfamare la popolazione. Con il dissodamento selvaggio, inoltre, si mise a rischio la tenuta del suolo. I paesi sulle alture, incastellati su ripidi declivi furono i primi a subire le conseguenze della trasformazione del territorio con frane e smottamenti. La sopravvivenza della gente della Maiella fu affidata per la quasi totalità a un’economia di sussistenza che aprì la strada dell’emigrazione.

L'ultimo dei fusai

Il laboratorio di Mastro Tonino

Molti compaesani di Tonino espatriarono in Canada, ma “io la mia America ce l’ho già. La mia vita è il mio paese natio, per nulla al mondo lo lascerò. Per nulla al mondo potrei abbandonare di nuovo la mia casa, i miei affetti”, racconta Tonino a Fanciulli. Preferiva lavorava 13-14 ore al giorno in bottega, saliva a casa solo per pranzare e poi giù per riprendere a lavorare ai suoi manufatti. Continuava a viaggiare come venditore ambulante: Frascati, Tagliacozzo, dove a volte pernottava. Il periodo migliore per raggiungere Frascati o i Castelli Romani era quello della vendemmia in quanto riusciva a vendere tante “cannelle” per le botti, anche in cambio di vino bianco.

Il Ticchettìo del suo tornio ha continuato a scandire il tempo del paese e lo avrebbe fatto per molto tempo ancora. La sua bottega era sempre aperta per chiunque volesse osservare la sua arte, giovani e bambini curiosi, persone di passaggio e tanti amici. Soprattutto i bambini iniziano a frequentarla spesso, attratti da un’arte tanto antica, da trottole e tanti Pinocchio. Mastro Tonino aveva un trasporto istintivo verso loro, uomo buono, aveva conservato negli occhi semplicità e meraviglia.

“Ho sposato Filomena e sono rimasto qui. Continuo l’arte del fusaro, lavorando e crescendo dignitosamente cinque figli. So lavorare bene con le mani e le aziende locali mi hanno sempre dato da lavorare. Ho trascorso 64 anni a lavorare il legno in azienda, quarant’anni in una ditta e venticinque in un’altra, senza prendermi mai un giorno di malattia. E non ho mai abbandonato la mia bottega sotto casa, c’è la mia vita qui dentro, da sempre”. All’età di 90 anni si svegliava ancora alle 6 del mattino per andare nella sua bottega e lavorare il legno, toccarlo, trasformarlo.

A mastro Tonino piaceva ascoltare quello che diceva la gente. E la sera, dopo il lavoro, leggeva: “Ho letto molto, e leggo ancora perché voglio sapere, voglio conoscere il mondo”. Uomo di cultura, lavoratore instancabile. Mai appagato nella sua curiosità, era motivato dalla voglia di scoprire cose nuove. Anche l’attualità lo interessava, gli dava la possibilità di viaggiare senza spostarsi. Ma non ha mai smesso di fantasticare nuovi mondi ai quali è riuscito a dare voce e materia. L’energia gliela davano i suoi affetti e l’amore per la famiglia ma, da buon abruzzese, preferiva parlarne poco. Invece parlava molto della guerra, dei patimenti, della pazienza, che hanno dato un senso alla sua vita, sempre pronto a trovare la forza di ricostruirsi, reinventarsi, ricominciare.

A Pretoro erano in molti a praticare l’arte del “fusaro”, artigiano specializzato nella realizzazione del fuso, strumento per trasformare la lana in filamento, fondamentale nel lavoro delle filatrici. Anzi, Pretoro era considerato il paese dei fusai. Nei mercati, anche fuori regione, veniva acquistato solo il fuso realizzato a Pretoro: “il fusaro deve essere di Pretoro”, si diceva. I fusari partivano da questo piccolo paese dell’entroterra abruzzese verso città d’arte o di mare: Lecce, Tivoli, Frosinone, Roma, Foligno. Muniti di carta di passo con timbro Reale, passaporti nominativi, spesso seguendo la più sicura via dei tratturi. Il re ordinava di non ostacolare in nessun modo il loro cammino.

A volte i fusari si recavano nelle Puglie insieme ai pastori che svernavano le greggi. In Gargano avevano fama di veggenti: “sulla via della transumanza L’Aquila-Foggia di Pretoro sono ritenuti per indovini. Abbassando l'orecchio a terra, essi odono tutto ciò che avviene da lontano”. (Giovanni Pansa, Leggende Medievali Abruzzesi). È probabile che durante questi viaggi gli artigiani del legno abbiano trasmesso l’arte di intagliare il legno ai pastori divenuti anche loro abili.

Non solo fusi, utensili e oggetti vari. Strumenti musicali, giochi per bambini, statuine raffiguranti i volti di personaggi storici e letterari. Mastro Tonino costruiva abilmente gli strumenti della tradizione abruzzese, come zampogne e pifferi, miniature di oggetti del mondo rurale, attrezzi rudimentali dell’arte contadina e pastorale, fuselli per il tombolo, imperatori. Si ritrovano nel suo laboratorio “tutti insieme in un ginepraio intricato di idee, pensieri, azioni che trasformano il legno in meravigliose creature. Ogni pezzo di materia è costruito con le sue mani, non solo il legno che lavora, ma gli attrezzi, le suppellettili. Negli anni mastro Tonino ha realizzato delle vere e proprie opere d’arte: dalla miniatura della Tour Eiffel al Pantheon, dal Duomo di Milano alla Mole di Torino, alla Basilica di San Pietro, la fontana di Trevi. Numerosissime sono le opere che ha realizzato in scala, prendendo spunto solo da un foglio di giornale o una fotocopia sbiadita. Non le ha mai viste di persona, le immagina per grandezza e maestosità”. Sono, per questo, più preziose di una riproduzione, sono opere d’autore. Aggiungendo elementi o eliminandoli, modificando le dimensioni, evidenziando gli elementi preferiti, mastro Tonino ha espresso tutta la sua arte creativa, la fantasia fanciullesca, lo stupore incantato davanti ai monumenti storici. Colpo di martello sullo scalpello, raspa che sfrega, soffio energico per liberare il manufatto dalla segatura, così dava vita, forma e colore a un semplice pezzo di legno, spesso tagliato con le sue mani nel bosco.  

I monumenti e le cattedrali in legno realizzati da mastro Tonino sono attualmente esposti a Pretoro, nel Museo dell’Arte “Nicola D’Innocenzo”, adiacente alla chiesa di Sant’Andrea. Una sorta di Italia in miniatura riprodotta attraverso le sue opere d’arte più conosciute. L’Ingresso è gratuito.

Si può unire la visita del museo con quella del paese e dei mulini rupestri, per udire nella quiete il canto del vento, il frastuono del fiume e ritrovare l’anima dell’uomo di legno che abiterà per sempre la sua Maiella.

Ph dalla Pagina Facebook "Mastro Tonino" https://www.facebook.com/Mastro-Tonino-1772791976367032

Letture consigliate

Fabrizio Fanciulli, L’uomo di legno, Sigraf Editore, 2018

Il Parco Nazionale della Majella, Multimedia Edizioni, 1997

Paolo Rumiz, Il filo infinito, Narratori Feltrinelli, 2019

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