Nella 13° Tappa del Cammino di San Tommaso - che parte da Roma, attraversa gli Appennini e raggiunge Ortona sull’Adriatico - si procede da Pescosansonesco fino ad arrivare al Santuario del Volto Santo di Manoppello, il termine della tappa, seguita dalla quattordicesima tappa che arriva a San Martino sulla Marrucina, passando per Pretoro, entrambe nel territorio di Abruzzo Marrucino TerrAccogliente.
Superata l’abbazia di San Clemente a Casauria, e procedendo seguendo l’acquedotto, prima di arrivare a Scafa dove si biforca ad anello, il percorso incrocia la Via Tiburtina Valeria costeggiandola per un tratto, e risale leggermente verso San Valentino su un breve tratto asfaltato. Si svolta poi a sinistra, su una strada sterrata ben evidenziata dalla segnaletica. Prima di ridiscendere verso l’abitato di Scafa, dal quale si risale fino alle sorgenti turchesi del fiume Lavino che dovrà essere guadato per raggiungere il Santuario del Volto Santo di Manoppello, si potrebbe essere attratti dal suono dello scalpello, proveniente da una dimora vicino al punto di svolta. Avvicinandosi non è difficoltoso scorgere un vero e proprio museo all’aperto: è arrivata l’ora di fare una sosta. Tra fichi, rosmarini, ulivi ed enormi querce centenarie, vive nel suo “buen retiro” Zopito De Fabritiis, che oggi lavora e scolpisce il legno immerso nella natura, vicino a boschi e sentieri, ma la sua vita da artista artigiano iniziò con il mestiere di orafo 36 anni fa.
Nato a Penne, in provincia di Pescara, ha girato l’Italia facendo conoscere la sua arte orafa che può essere ancora rintracciata nel grafismo dei suoi quadri. Dal 2009 lavora il legno con una diversa filosofia, interagendo con la materia non tanto per plasmarla e darle una forma progettata, quanto per ascoltarla e coglierne la possibilità e la tensione verso una nuova vita. Osserva la natura e viene ispirato dalle sue forme e linee. Restituisce poi l’energia che assorbe liberando la materia dalle gabbie delle definizioni delle correnti artistiche, lontano da norme estetiche rigorosamente stabilite. In questo luogo “l’arte (non) è un carcere”, volendo riprendere una pregnante definizione dell’artista argentino Horacio Zabala che negli anni ’70 realizzò un’inchiesta sociologica con intento provocatorio. Le opere di Zopito sono sì custodite, alloggiate e recintate, come in un museo, ma sono diventate parte della natura, si sono integrate con angoli e scorci del giardino, vivono in simbiosi con piante e alberi, oppure sensibilizzano e decorano muri esterni con raffinata sensibilità estetica.
Egli recupera una concezione antica di arte, quando non era avvertita come diversa dalla tecnica e dalla scienza, ed era un modo per conoscere la natura. Nella contemporaneità, invece, spesso l’arte è stata reclusa nella sfera dei sentimenti e della soggettività. Ma per Zopito l’arte non perde la relazione con gli accadimenti della società e non si slega mai da una visione etica, pur rivendicando la libertà della sua espressione artistica: il divenire e il cambiamento per lui sono l’arte. Egli concede una seconda possibilità alla materia, inventa per essa una nuova vita: le sue opere sono in genere ricavate da pezzi di legno destinati al fuoco, o alberi seccati e morti, perciò la sua arte è anche sostenibile. Osserva i rami potati che giacciono sul terreno con occhi poetici, immagina per loro un significato nuovo, a volte decorativo, in un continuo esercizio di liberazione della creatività. Fa street art con rametti di ulivo potati che compone sulle pareti assecondando un gusto compositivo che rispetta la casualità con cui sono stati trovati sul terreno: “a volte incastro più rami, quello che mi piace è il gioco delle ombre proiettate sulla parete, che cambia durante l’arco della giornata, a seconda della diversità della luce”, sottolinea lo scultore. Anche in questo gioco decorativo la natura si fa arte con un’opera in movimento.
I pezzi di legno che Zopito scolpisce entrano nella sua esistenza, ne ricorda la provenienza, avverte il divenire della materia che trasferisce nella sua arte, alla ricerca continua del senso nascosto. Zopito lavora tutti i giorni con regolarità, come un operaio, per cercare questo senso che non arriva mai a un concetto compiuto, ma continua a dispiegarsi combinandosi con i gesti delle mani che capovolgono l’oggetto d’arte, cercando l’altra faccia, l’altra forma, una similitudine ardita. Quasi tutte le opere hanno un dritto e un rovescio, possono essere ruotate o posizionate in modo diverso, cambiano la loro prospettiva facendo cambiare prospettiva allo spettatore. Le sue opere sono concepite per rimanere in movimento all’interno dello spazio che a sua volta si modifica in base alla luce, del sole o della luna, delle vibrazioni del vento, della saturazione dell’umidità; a volte è profondamente silenzioso, altre riempito dai cinguettii o dai suoni artificiali emessi da strumenti rudimentali costruiti appositamente. In alcuni periodi le foglie degli alberi lo riempiono modificandone il colore, in altri prevale il vuoto lasciato dai rami spogli. Il movimento è sempre l’opera d’arte e testimonia la condivisione di Zopito della poetica che appartenne anche all’arte Futurista.
In questo continuo divenire lo scultore vuole raccontare le esperienze che vive in particolari momenti, come quella provocata dalla notizia della valanga di Rigopiano con le sue 29 vittime che sono diventate 29 alberi, piantati nella sua tenuta formando la “Isola Rigopiano 29”, e 29 sculture qui esposte: “voglio condividere la Memoria personale”, dice Zopito. Lo ha fatto anche per la guerra in Ucraina a cui ha dedicato un’opera dipingendo la base in cemento di un percorso del suo giardino e per il Terremoto dell’Aquila a cui ha dedicato nel “Parco della Memoria” la “Isola L’Aquila 309”. Questa vicinanza emotiva al dolore dell’umanità ricorda la “officina pietatis” dei monaci certosini del XII secolo che vivevano in una condizione di beatitudine e pace, per concentrazione e lavoro, nella “domicilium pacis”, “reclusione” elettiva, luogo che viveva in una tensione costante tra ordine e libertà. È solo in tempi moderni che l’idea dell’artista come monaco e dell’atelier artistico come cella si afferma pienamente. Nella mistica della cella la solitudine, però, non esclude il riconoscimento della bellezza del mondo, anzi essa riproduce un’armonia che appartiene al tutto e che implica la visione del mondo come opera d’arte.
Zopito esprime la sua creatività artistica in un luogo che ricorda la cella-tipo delle certose, come quella di Clermont, composta da vari locali, con giardino autonomo e un portico. Il bellissimo portico di Zopito è intitolato alla sua amata moglie Ottavia, è lo spazio ideale dove accogliere camminatori e passanti che possono trovarvi una piccola cucina e un tavolo lungo con panchine. “Tutto ciò che voglio – dice Zopito – è raccontare le mie opere alle persone”.
Sul lato opposto del percorso dedicato all’Ucraina, vi è dipinto, in bianco e nero, l’albero genealogico della sua famiglia, con gli avi di cui si è tramandata la memoria e tutti i discendenti. Anch’essa, come le altre opere dedicate alla memoria, rappresenta l’incontro tra terra e cielo. Ma Zopito raffigura anche fatti e avvenimenti culturali come “Uccellacci e Uccellini” di Pasolini, film visto al cinema e ricordato da un tronco scolpito con volti di uccelli o la quercia-guerriero che desidera la pace su cui è scolpita una mano che mostra un ramoscello di ulivo. Il suo desiderio di condividere la cultura lo ha esternato attraverso la realizzazione di un Teatro all’aperto con 120 posti a sedere tra gli olmi, realizzato nel 2020, un Teatro come teatro della nostra vita.
Percorrendo il suo giardino disseminato di opere ci si sente osservati. È l’effetto provocato dalle molte sculture che hanno occhi e orecchie: ci guardano e ci ascoltano, ci fanno compagnia, sono materia viva che respira. In alcuni tratti sembra di ritrovarsi nel XIII Canto dell’Inferno dantesco in cui le anime si materializzano in pezzi di ramo, tra i quali risuonano le parole di Pier delle Vigne: “Uomini fummo, e or siam fatti sterpi”. E la stessa sensazione provata da Dante ci invade: “Cred’io ch’ei credette ch’io credesse/che tante voci uscisser, tra quei bronchi/da gente che per noi si nascondesse”.
Le sculture di Zopito spaziano dal figurativismo all’astrattismo, dall’arte povera che è riduzione, all’arte concettuale che è l’affermazione della propria individuale libertà incondizionabile. A volte le sue opere si ispirano al primitivismo, quando sono caratterizzate dai tratti istintivi delle antiche civiltà e popoli indigeni, come nelle maschere di moltissimi personaggi storici o nelle spirali ancestrali disegnate in un percorso di conoscenza.
Altre volte la sua arte diventa funzionale, quando assembla pezzi che diventano oggetti portabottiglie, come le opere “Melo-bevo” realizzato con il legno di melo, e “Abruzzo di-vino”.
Dialogare con Zopito ci rimette in pace con il mondo, ci trasmette umanità, dolcezza e grande passione per l’arte. Il Cammino ora può essere ripreso.