Roccamontepiano

Tra i “10 prodotti da salvare” del GAL Maiella Verde

Ricetta della tradizione elaborata dall’ingegno umano. Non c’è miglior definizione, espressa già nell’antica Grecia, per descrivere ancora oggi il Vino Cotto. Vino del territorio, per ragioni storico-culturali, di tradizione tecnologica e agricola. “Il suo grande valore storico, culturale ed economico è testimoniato dalle tante donazioni, divisioni e successioni di cui il prodotto è stato oggetto in passato, allorché ciascuna botte veniva trattata alla stregua di un bene di grande valore, degno persino di essere portato in dote”. Con questo riconoscimento il GAL Maiella Verde ha inserito il Vino Cotto tra i “10 prodotti da salvare”, caratteristico della collina e le aree pedemontane di tutto il territorio di Abruzzo Marrucino, ma dalla tradizione consolidata a Roccamontepiano, in provincia di Chieti. In questo paese della zona pedemontana della Maiella orientale, durante la popolare festa di San Rocco, il 16 agosto, giungevano frotte di persone per degustare i vari vini cotti serviti nei tanti stand che mettevano a disposizione tavoli anche per consumare porchetta. La festa in onore del santo pellegrino è ancora oggi molto sentita, le mete sono la grotta e la fontana da cui sgorga acqua freschissima considerata taumaturgica nella tradizione. Per raccoglierla è stata ideata la brocca di San Rocco, oggetto rituale in quanto identificato dalla scritta dell’anno di produzione. Possederne una collezione è come esporre un calendario di ricordi da riguardare e fermare nella propria memoria. Con la sempre maggiore affermazione del vino cotto come prodotto del territorio, gli artigiani della locale bottega CeramiCapetola hanno ideato bottiglie e bicchieri in maiolica per la sua degustazione. La Brocca di San Rocco ha ispirato anche una interpretazione contemporanea di Arago design, di Pescara, con il progetto SanBRock - save water, riattualizzazione nella quotidianità contemporanea, con un messaggio ecologico che invita a salvare l’acqua.

 

“Terra cruda, vino cotto”

Quelli legati al vino cotto, sono soprattutto ricordi di un mondo contadino e dei lavori estivi di campagna, quando ci si rifocillava con pesche e vino cotto o zabaione con vino cotto, prodotto che aveva piacevolmente sostituito il vino non più consumabile. A Roccamontepiano, poi, viene naturale l’abbinamento tra il vino cotto e le case rurali in terra cruda presenti sul territorio, tanto che il Comune ha individuato e ristrutturato in contrada Giancola il manufatto in terra “Casa Volpe”, per la valorizzazione e promozione del Vino Cotto. Sempre valido è il motto di qualche anno fa: “terra cruda, vino cotto”.

Un percorso di valorizzazione del vino cotto

Vino liquoroso, trae la sua forza proprio dall’essere un elemento della tradizione e dal legame con le origini: un prodotto di qualità da sempre ottenuto naturalmente dall’uva con un metodo di coltivazione della vite ancora in uso. Il suo sapore è dolce, caldo, avvolgente.

Purtroppo, di tradizionale c’era anche la gelosia del proprio prodotto tra i piccoli viticoltori, ognuno depositario della “vera” ricetta, una competizione che ha ritardato la richiesta di specifiche leggi per arrivare a un quadro normativo di riferimento. Da circa un ventennio, però, è stato intrapreso un percorso per la valorizzazione e promozione del prodotto, e per favorire le relazioni tra i produttori e tra loro e la comunità, ogni anno, prima in contrada Pomaro e oggi in contrada Terranova di Roccamontepiano, si tiene “Castagne e Vino Cotto”, una speciale festa autunnale nel nome dell’allegria e della rievocazione della tradizione.

Tutto prende inizio dalla rinnovata collaborazione e sinergia tra soggetti pubblici e privati, tra il Comune di Roccamontepiano, l’Associazione Produttori Vino Cotto d’Abruzzo, nata nel 2006, e il GAL Maiella Verde. Per consolidare l’attività di tutela, attraverso il programma Leader+, questi enti hanno organizzato nel 2015 un corso di formazione indirizzato ai produttori e stakeholder, tenuto da relatori esperti della materia. Il grande esperto di vino cotto, docente di Chimica Agraria Leonardo Seghetti, ha portato l’esperienza della regione Marche con la quale siamo accomunati come popolo piceno. Per quell’occasione il professore ha anche realizzato una guida dal titolo “Vino Cotto nella tradizione di Roccamontepiano. Storie e tecniche di produzione per la valorizzazione commerciale”. Sono stati tenuti convegni a tema, seminari, eventi e curate le pubblicazioni.  È stato creato un marchio collettivo con il regolamento d’uso ed è stato predisposto il Disciplinare di produzione.

Prodotto della tradizione agroalimentare

Il Vino Cotto in Abruzzo è stato codificato come Prodotto della tradizione agro-alimentare nel 2003, riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. La tradizione è legata all’ambiente contadino che, fino agli inizi degli anni Ottanta, si strutturava nella mezzadria. In quella realtà, il padrone sceglieva per sé le uve migliori per la produzione del vino e lasciava al mezzadro le uve di scarto e l’uva resta, con basso grado zuccherino. Il mezzadro, riprendendo le tecniche degli antichi greci, cuoceva le uve per ottenere un prodotto conservabile nel tempo. Perciò la tradizione ha un’origine prettamente contadina. Proprio i contadini iniziarono a contraddistinguersi nell’ospitalità, offrendo vino cotto invecchiato e pane, fino a quando non si è affermata l’usanza di produrre una piccola botte alla nascita di un figlio per essere aperta nel giorno del suo matrimonio o per altro lieto evento. Le famiglie contadine preparavano questa bevanda per i lavori più faticosi, come quelli della mietitura, per recuperare forza ed energia. 

Ricco di polifenoli, combatte l’invecchiamento

Da un recente studio dell’Università di Teramo è stato provato che il vino cotto è un alimento prezioso, ricco di elementi come polifenoli, tannini, vitamine e sali minerali che, insieme agli zuccheri caramellizzati durante la fase di cottura del mosto, possiedono spiccate proprietà antiossidanti. Quindi il vino cotto combatte l’invecchiamento e aiuta a prevenire le malattie tumorali e cardiovascolari. Al vino cotto venivano riconosciute persino qualità taumaturgiche: caldo veniva usato per curare i malanni da raffreddamento e frizionato per irrobustire le gambe dei bambini. Nel febbraio 1997 - notizia riportata dal Corriere Adriatico -, a papa Giovanni Paolo II influenzato il dr. Augusto Giammiro, ascolano, consigliò di debellare i sintomi dell'influenza sorseggiando vino cotto. Il dottore aveva appena appreso i risultati di una ricerca americana che aveva identificato una sostanza complessa definita “antibiotico naturale” e conosceva la tradizione contadina picena che prescriveva di sorseggiare vino cotto all'insorgere di raffreddore, tosse, mal di gola. Il vino cotto, inoltre, veniva usato come rimedio benefico per la circolazione sanguigna e nei disturbi intestinali da eccessi alimentari.

Vino del territorio

Per tutto questo il Vino Cotto di Abruzzo e Marche viene considerato il vino del territorio, in cui si fondono ambiente, storia, tradizione e cultura del popolo che qui ha abitato e che vi abita. Territorio caratterizzato da alte montagne, a pochi chilometri dal mare. La produzione di vino cotto si concentrava soprattutto nei territori pedemontani, dove la coltivazione della vite si estendeva oltre i 600 metri di altezza, lontani dalle invasioni che arrivavano dal mare. Il nostro entroterra va considerato, perciò, la culla della tradizione e produzione storica di questo prodotto.

Le uve che vengono utilizzate sono quelle del territorio, con le quali si producono anche i vini DOC. A Roccamontepiano, per esempio, si ottiene il Vino Cotto prevalentemente da uva Montepulciano. In queste zone interne con elevate altitudini e spesso con terreni esposti a nord, l’uva arriva a maturazione più lentamente e non garantisce apprezzabili contenuti zuccherini. Per evitare difetti nei mosti si ricorreva, dunque, alla cottura ottenendo così un prodotto che messo poi in botti di legno subiva una lenta fermentazione, e successivamente veniva fatto invecchiare. Per produrre vino cotto l’uva si lascia surmaturare leggermente, cioè viene raccolta in ritardo rispetto alla vendemmia usuale, ma anche in questo modo il colore non sempre risulta intenso. Si ricorre quindi alla tradizionale “sbacata”, bucce cotte per estrarre colore, aggiunta al mosto fresco che andrà a formare il vino cotto.

Oggi per produrre vino cotto di qualità si usano le uve migliori, con la giusta maturazione, e Roccamontepiano in questo è stata pioniera. Qui per produrre vino cotto viene ridotto il mosto fresco fino ad arrivare a un 25-30% del suo volume iniziale. Completata la cottura, il mosto decantato ma ancora caldo va travasato nelle botti che oggi sono quasi sempre di rovere - anticamente potevano essere di castagno, ciliegio, frassino -. Poi si rabbocca con mosto fresco fino a raggiungere il volume iniziale. In questo modo la maggior parte del prodotto finale non ha subìto la cottura, e “se questa è la tradizione (di Roccamontepiano), va mantenuta – scrive Seghetti -, anche se i tempi per avere un prodotto pronto si allungano”. Negli anni successivi la botte parzialmente svuotata viene colmata con nuovo mosto cotto.

I prolungati periodi di invecchiamento conferiscono particolari caratteristiche organolettiche e non è più possibile individuare i vitigni di partenza. La cottura determina la caramellizzazione degli zuccheri e la formazione del colore ambrato, ma produce anche la distruzione degli aromi varietali. Per questo i cotti hanno “un sapor loro” – come scriveva Plinio -, perché nel vino cotto è difficile sentire il profumo dell’uva, ma si producono altri aromi. Si ritrovano gli odori di confettura e miele; di frutta essiccata, prugna e fico; di frutta secca; speziati di liquirizia, di tostato. Il colore va dall’ambrato al bruno, dal giallo occhio di gallo all’oro cupo. All’analisi gustativa si presenta con una scala che va dal secco/abboccato al dolce stucchevole.

Frutto dell’ingegno dell’uomo

Il vino cotto ha una storia millenaria. È stato introdotto nei territori dell’Italia Centrale dai Greci che utilizzavano questa tecnica di produzione. Plinio il vecchio, durante il I secolo d.C., nella sua Naturalis Historia, include il vino cotto tra le più ricercate bevande dolci del tempo e inserisce due frasi che danno preziose informazioni sul prodotto, usate ancora oggi: “I cotti hanno il sapor loro e non quel del vino” e “il vino cotto è frutto d’ingegno e non di natura”. L’uomo lo ha ideato per conservare il vino più a lungo, ingegnoso nella coltivazione, preparazione e conservazione, ingegnoso nel calcolare le temperature che devono rimanere costanti in tutta la filiera, dalla produzione alla vendita. L’ingegno si manifesta anche nelle operazioni di defogliazione e nell’individuazione della giusta maturazione dell’uva, quando aumentano gli zuccheri e diminuiscono gli acidi: solo così il mosto sarà adatto alla cottura e si otterrà un vino cotto dolce e con la giusta acidità. L’importante è non caratterizzare il prodotto con un odore di affumicato bruciato che si sprigiona quando il mosto viene cotto in modo scorretto.

Individuare il grado zuccherino serve per conoscere il tempo di cottura e la quantità di mosto fresco da aggiungere per arrivare al vino cotto voluto. Il rischio è che i lieviti smettano di lavorare e il vino cotto risulti molto dolce e con pochissimo alcol. La maestria sta nel mantenere l’acidità, un leggero amaro, gusto pieno e persistente.  Ma se in partenza è troppo alta la presenza degli acidi, nella fase di concentrazione si perde l’equilibrio con gli zuccheri e il vino risulta aspro. Si deve anche prestare attenzione, nei lunghi processi fermentativi, alla possibile formazione di altri acidi che modificano i profumi evidenziando un gusto di aceto in presenza di microrganismi batterici. Infine, una temperatura non adeguata può provocare il blocco della fermentazione. Per ottenere un prodotto buono è necessario avere un locale fresco o condizionato, perché il mosto fermenta all’interno di un range di temperatura abbastanza preciso. Quindi, affinché i lieviti non smettano di lavorare, la temperatura non deve scendere mai sotto i 14 gradi, né superare i 35.

L’ingegno dell’uomo si esprime nella fase di cottura del mosto crudo, nel mantenere il fuoco costante e nel continuo uso della schiumarola per togliere la feccia man mano che affiora. L’ebollizione lenta e continua, infatti, è quella ottimale per il vino cotto. “Quindi se è difficile fare il vino, è ancora più difficile fare il vino cotto buono”, dice Seghetti.

Il Centro di produzione del vino cotto

Oggi, con l’evoluzione tecnologica, la cottura viene fatta in caldaie computerizzate di acciaio inox che portano il mosto alla temperatura di ebollizione in venti minuti e mantengono la temperatura costante fino a raffreddamento, attraverso il passaggio di acqua fredda in una tasca esterna. Questo procedimento è adottato per la commercializzazione del prodotto e per produrre economia. Per motivi di sicurezza sanitaria, le caldaie tradizionali in rame sono ormai impiegate solo nelle produzioni casalinghe.

A Roccamontepiano la commercializzazione del prodotto è stata favorita dal Centro di produzione del vino cotto, aperto nel 2014 con la collaborazione tra Comune di Roccamontepiano, GAL Maiella Verde e Associazione Produttori Vino Cotto d’Abruzzo che ha appena rinnovato il suo Consiglio di Amministrazione con la presidenza di Adamo Carulli. Il Centro, situato in contrada Terranova, è a disposizione dei produttori - circa una ventina -che aderiscono alla Cooperativa Vino Cotto, nata per produrre e commercializzare un prodotto riconoscibile, anche con il rispetto del Disciplinare di produzione.

Il Disciplinare di produzione

Sul Disciplinare di produzione del Vino Cotto d’Abruzzo troviamo che le uve debbono essere del territorio, a bacca rossa e/o bianca, non aromatiche; devono essere ottenute da vigneti ubicati in zone collinari o pedemontane. Le operazioni di vinificazione devono essere effettuate all’interno della zona di produzione. L’uva deve essere raccolta al giusto grado di maturazione, viene poi pigiata e subito pressata. Il mosto così ottenuto viene posto in caldaie di acciaio inox o in caldaie di rame. Nell’ultimo caso sul fondo vanno adagiati catenaccio e piatto rotto, che saranno tolti una volta raggiunta l’ebollizione. La cottura sulle apposite fornacelle, in pietra o in terra cruda, viene effettuata a fuoco diretto che deve essere vivo e lento in modo che il mosto venga ad ebollizione senza superare gli 80° e senza traboccare dal recipiente. Il mosto, attraverso la lenta e continua ebollizione, deve raggiungere un calo compreso tra il 25 e il 30% del suo volume iniziale. L’entità del calo sarà in funzione sia della composizione dell’uva impiegata, sia della tipologia del vino cotto che si intende produrre. Durante la cottura è consigliabile eliminare per sfioramento la schiuma che man mano si forma e la feccia che si separa in superficie. Completata la cottura, il concentrato, detto “Sapa”, viene lasciato decantare e, dopo eventuale sfecciatura, trasferito ancora caldo in botti di legno.

Al mosto concentrato si aggiunge mosto fresco in proporzione variabile, fino a raggiungere il volume iniziale. La fermentazione si sviluppa lentamente e al termine viene effettuato un travaso in un’altra botte di legno che viene tappata. L’invecchiamento in botte di legno deve avere una durata non inferiore ai due anni. Sono consentiti i rabbocchi aggiungendo vino cotto della stessa annata o di annate più recenti. Molto importante sarà un suo lento e lungo invecchiamento evitando forti ossidazioni. È proprio questo il punto più delicato e importante della vinificazione: in questa fase è necessario calcolare il giusto dosaggio fra il vino cotto nuovo con quello vecchio ed effettuare una spillatura accorta, per evitare ossidazioni problematiche. Eventuali errori in queste operazioni potrebbero impedire il formarsi del profumo fruttato caratteristico del vino cotto che deve essere sottoposto a un periodo di affinamento in bottiglia di almeno 1 mese.  

È vietata l’aggiunta di sostanze chimiche e aumentare la gradazione zuccherina del mosto e del vino cotto con saccarosio. Il Vino Cotto con invecchiamento in botte di legno non inferiore a 5 anni può fregiarsi della menzione “superiore”, mentre quello con invecchiamento in botte di legno non inferiore a 8 anni può fregiarsi della menzione “riserva”; menzione “gran riserva” per quello di oltre i 15 anni. È il tempo, infatti, l’ingrediente principale di tale prodotto, perché il tempo gli dona una densità sciropposa, sapore abboccato, aromatico, lievemente amarognolo, dal colore rosso cupo.

Il mosto cotto

Dalla cotta si preleva una parte, il mosto cotto, melassa concentrata e sciropposa che servirà alla preparazione dei dolci tradizionali. A Roccamontepiano il mosto cotto si produce concentrando il mosto fresco del 70%. È ingrediente immancabile nei dolci tipici abruzzesi, dalle nevole ortonesi ai bocconotti, ai “celli pieni”. Negli usi contadini, si ricordano le foglie di borragine impanate e fritte bagnate col mosto cotto, formaggi e panna cotta guarniti al mosto cotto. Un posto di riguardo merita il ricordo della neve, un tempo abbondante e pura, raccolta in un bicchiere e irrorata con mosto cotto: una sorta di granita paragonabile a una Madeleine proustiana per molti abitanti della zona.

Il vino cotto nella storia

festa di San Rocco. Preparativi
Maiolica all'ingresso del paese. Roccamontepiano terra del Vino Cotto
grotta di San Rocco
grotta di San Rocco
fontana di San Rocco
maioliche sparse per il paese
brocche di San Rocco di CeramiCapetola
il progetto di Arago design
bottiglie e bicchieri in maiolica per il vino cotto di CeramiCapetola
murale di San Rocco in paese
mosto in ebollizione per la preparazione del Vino Cotto
ancora mosto in cottura
botti di Vino Cotto
tavola apparecchiata con Vino Cotto della tradizione
bottiglie di Vino Cotto con il marchio della Cooperativa
il marchio della Cooperativa Vino Cotto di Roccamontepiano

Originariamente i romani cuocevano il mosto in contenitori di piombo che si scioglieva nel vino con grave danno alla salute. Molto tempo dopo il piombo viene sostituito con il rame, ancora usato per le caldaie nelle preparazioni di vino cotto a uso familiare. Anche il rame, però, si solubilizza nel mosto dando la sensazione organolettica di metallo. La saggezza popolare trovò, però, un rimedio a questo inconveniente aggiungendo ne “lu callare” (il caldaio) un pezzo di ferro, tradizionalmente il “catenaccio”, che attrae il rame e che verrà estratto una volta raggiunta l’ebollizione. Sopra a questo pezzo di ferro si aggiungeva un piatto rotto in quanto la porosità della terracotta regolarizza l’ebollizione e la rende costante. Oggi la bollitura tradizionale con il “callare” viene riproposta soprattutto durante le feste per rievocare la tradizione contadina del vino cotto.

Negli anni ’70 compare l’alluminio, più leggero e più facile da scaldare, ma anche questo materiale risulta solubile nel suo contenuto se non si adottano specifici accorgimenti.

Già Lucio Columella, nei primi anni d.C., nel suo trattato romano di agricoltura “De re rustica”, descrive come produrre il vino cotto: “fino a riduzione di un terzo si cuocia del mosto di sapore dolcissimo, esso appena raffreddato si trasferisce nelle botti e si ripone per usarlo”. Per evitare difetti nei mosti si ricorreva, dunque, alla cottura con una pratica ripresa poi dai contadini, la cosiddetta “interzatura”, ovvero la riduzione a caldo del volume di un terzo del mosto iniziale.

Nel Cinquecento Andrea Bacci cita il vino cotto nella sua “Storia naturale del vino” e l’enologo di papa Paolo III Farnese esalta la bontà del vino cotto, tanto da adottarlo nel rito della santa Messa, usanza che viene ancora mantenuta da alcuni frati marchigiani. Nel 1944 il cardinale Montini, futuro papa Paolo VI, ringrazia un avvocato di Ascoli Piceno per avergli mandato del vino cotto per la Messa.

In tempi più recenti, nel 1971, lo scrittore e giornalista Mario Soldati, dopo aver assaggiato il vino cotto offertogli da un amico, lo descrive come “ottimo vino da dessert… che evita quella dolcezza vischiosa a volte nauseabonda di tanti passiti o marsalati. C'è qualcosa di affascinante, di profondamente rustico e montano, nel vino cotto: o almeno in questo vino cotto", scrive.

Nello stesso anno 1971 Stefano Zaccone, autore della “Guida pratica ai vini rossi”, in una sua visita alla sede dell'Accademia del Vino de la Marca, dopo aver degustato il vino cotto ascolano, ha dichiarato che "è già gradevole da giovane, ma che si affina notevolmente nel corso dell'invecchiamento. L’odore, inizialmente vinoso bene espresso, diviene delicatamente profumato rivelando un fruttato assai delicato e caratteristico. A più protratto invecchiamento, assume maggiore struttura, mentre sviluppa aromi piacevolissimi, persistenti ed eterei, e manifesta piena personalità. Mantiene ed esalta una sua patriarcale mascolinità anche se mantenuta in una pregevole morbidezza."

Il gastronomo e giornalista Luigi Veronelli, parlando del Piceno, descrive il vino cotto come specialità preparata per uso familiare, che ha un sapore d’uva passita. Sarà il primo, nel 1974, a non considerarlo un vino e a intenderlo come una “ricetta”: “Ti si fa allora subito gradevole, ci senti viva la tradizione, il bisogno di una contadina riserva.

La Camera di Commercio di Ascoli Piceno definisce il vino cotto “vino genuino, generoso e di carattere”.

Anche quando la legge del 1965, n. 162, art. 5, con Decreto del Presidente della Repubblica non considerò il vino cotto un vino, vietando tutte le pratiche di produzione attraverso la cottura del mosto - tranne che per i produttori siciliani di Marsala che godettero di uno specifico comma nell’art. 5 -, nelle campagne si preparavano ancora, per uso familiare, piccoli quantitativi di vino cotto, che si ridussero sempre più per il timore di trasgredire alle leggi dello Stato. Le aziende vinicole locali abbandonarono questa produzione. Ma un prodotto di così lunga tradizione continuò a vivere clandestinamente nelle campagne, così come avveniva da secoli. Il vino cotto, pregevole per le ottime qualità organolettiche, rappresenta nelle tradizionali feste familiari, una testimonianza della continuità millenaria delle genti picene e abruzzesi.

Con l’inserimento del vino cotto nell’elenco delle Produzioni agroalimentari tradizionali, nel 2003, ripresero in Abruzzo piccole produzioni familiari che mantennero viva la tradizione fino a che nell’agosto 2015, quando fu abrogata la norma introdotta nel 1965, alcuni produttori ripresero a produrlo e anche a esportarlo come prodotto tipico. È stata una ripresa di grande successo in quanto nella zona marchigiano-abruzzese mancava un vino da fine pasto, da dessert, sostituiti con moscati e passiti.

L’abbinamento locale che meglio interpreta il territorio è quello con le caldarroste, nel periodo in cui il vino cotto diventa un vino da meditazione, da gustare davanti allo scoppiettio della legna nel camino. Ma è anche il momento di immergersi nella festa “Castagne e Vino Cotto” di contrada Terranova, tra gente festante, aromi sprigionati durante la cottura sul fuoco del mosto fresco nel “callare” di rame, profumo di caldarroste e rintocchi di campane.

 

Lettura consigliata:

“Vino Cotto nella tradizione di Roccamontepiano. Storie e tecniche di produzione per la valorizzazione commerciale”, di Leonardo Seghetti, promosso dal GAL Maiella Verde, Confesercenti Chieti, Comune di Roccamontepiano, Associazione Produttori Vono Cotto d’Abruzzo, 2015

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