di: Francesco Stoppa - direttore di CATA UdA

Halloween, la nostra festa?!

I tradizionalisti si scagliano contro “Halloween” per l’aspetto commerciale che ha assunto in Italia ma anche perché è considerata roba d’altri. Ciò si contrappone al travolgente successo della festa che rischia di diventare molto più importante del carnevale stesso. Non è una semplice montatura ma un fenomeno legato al fascino antico che la festa conserva. Halloween nel nome porta due significati profondi: la “notte dei doni” e della “santificazione” ovvero dei “doni consacrati”, ma suona anche come la notte cava in cui vagano spiriti e fantasmi. Frankestein, vampiri, zombie di recente invenzione, sono proprio le figure adatte a popolare oggi questo mondo cavo, sono morti non morti che vivono sulla Terra. L’altro aspetto invece è legato alla luce nell’oscurità ma anche alla propiziazione del ciclo naturale attraverso il sacrificio. La cera e le candele hanno tanta importanza in questa festa probabilmente perché erano ritenute essenziali nei riti cattolico/bizantini e, per estensione, nei riti magici popolari. Si dice che Halloween sia di origine celtica, anche perché tutto ciò cheappare aurorale e notturno (e non Romano/Cattolico) è diventato “celtico”. In realtà la festa esisteva anche da noi, con caratteristiche simili in tutta Italia. In Abruzzo la vigilia di Ognissanti si salda nella tradizione con la settimana di devozioni e riti legati al culto dei morti ma nella memoria dei testimoni rimane uno sprazzo di individualità che forse è la reminiscenza di una festa autonoma che ha sovrapposto elementi cristiani a quelli pagani. I ragazzi portavano zucche intagliate con occhi e bocca, con denti fatti di canna e lumini accese all'interno, o anche lanterne in carta oleata, oppure un qualsiasi altro ortaggio intagliabile come una grande rapa. La zucca tradizionale (checocce priatorije) è la "corritrice", molto dura, che veniva data ai porci e alle vacche "Sangue nen tè, sangue nen mette e fije nen fa fà". Invece gli americani usano la Cucurbita pepo nelle varietà Jack O’Lantern o Connecticut Field (Big Tom) più saporite ed anche facili da svuotare e intagliare. Ormai si trovano più che dall’ortolano nei negozi di gadgets. Quale che fosse la zucca, i ragazzotti più spavaldi (bazzariottə) a gruppi di tre o quattro, facendosi coraggio a vicenda si avventuravano nei luoghi proibiti, come i quadrivi, perché “la ci sono riferimenti” cioè i tramiti con il mondo degli spiriti e della magia. Quelli meno furfantelli si limitavano a sfilare per le vie con le suddette lanterne, scandendo i passi con una filastrocca: la cì la cì, la cì, la vera cirǝ; lacì lacì, la vera cirə; lu peparole rušce; chi li chinošce, chi li chinošce; potevano ricevere qualche frutto secco, un melograno e se erano fortunati i frittini (sgajuzzə). Una nostalgica rievocazione di questo uso è nel "Il fascino dei Ricordi" (2002) di Vittorio Pace del Teatro di Plinio di Orsogna. Tutti gli altri rimanevano in casa, a mangiare “povero e poco”, la mattina lu pane cottə e sera la verza con aglio e bastardoni, e una sardella salata fritta. Ma siccome il popolo per realizzare un desiderio spirituale ha bisogno di farlo cibo si preparava anche la granatə, zuppa rituale a base di grani e legumi. Il consumo di questa zuppa germinale ad Ognissanti ha un significato fortemente propiziatorio, come la cuccia che si mangia in Sicilia a Santa Lucia oppure le famose lessagne o virtù del primo Maggio. Avendo spezzato una lancia a favore di una radice antica nostrana per la festa di Halloween, ciò non significa che siamo autorizzati, anzi a maggior ragione, a trasformarla in una festa scema e priva di contenuti. Come tutte le feste importanti ha una doppia faccia, quella della rottura delle abitudini, dell’emozione, del gioco ma anche della riflessione, dell’autocritica e per finire di un saggio sguardo al futuro che si fa sempre più incerto.

Ognissanti e i morti -Na piand’e na… magnàtǝ dǝ maccarùnǝ.-

Nel fantastico mondo tradizionale la vita si incrocia con la morte attraverso la ricerca della soluzione dei problemi umani. I defunti appaiono in caso di pericolo, per una questione di confini, una scelta tormentata, esercitano la loro influenza a seconda di come furono e sono trattati. Tutto viene fatto per mantenerne viva la loro memoria e il rispetto, perché il prestigio terreno del defunto si perpetui nell'aldilà. Norme magico-religiose, i cerimoniali del lutto, i gesti giusti sono i riti esercitati da persona autorevole, una zia zitella della casa patriarcale. Questa "sacerdotessa" custodisce un altare a nicchia con un lume a olio (la sperǝ) e un mazzolino di fiori; al centro, su un centrino ad uncinetto bianco, le foto dei nonni (mammònǝ e tatònǝ), poi i relativi fratelli, per ultimi i giovani e le donne morte di parto, infine il solo nome dei fanciulli. Esclusi i non battezzati, accumunati alle Anime Sante del Purgatorio (Almǝ Santǝ dǝ lu preadòrijǝ). Sera e mattina si recitava Pater, Ave e Gloria seguiti da tre Requiem Aeternam in latino approssimativo.

All'approssimarsi del 1 e del 2 novembre era obbligo la preghiera collettiva. Si adornavano vasi e cuscini di foglie di alloro con cime di gallo, vellutine e dalie per il corteo devozionale al cimitero con ceri e lumini. Le tombe in terra, già liberate dalle erbacce, erano segnate da mattoni infissi a spina di pesce e da una croce in pietra. All’ingresso del camposanto, un soldino ai mendicanti per recitare le maccheroniche diesillǝ (Dies irae). I soccǝ, (mezzadri) dei nobili, schierati alla cappella padronale. Poi veniva l'impegno più importante, rinforzare il rapporto con il mondo dei morti, alimentandoli.

La vigilia del 2 novembre ai piccoli veniva spiegato che i morti sarebbero tornati alla mensa domestica (la tavelǝ dǝ li murtǝ), per un sacro pranzo di cibi prelibati e simbolici. Imbandire arduo che richiedeva un anticipo di mesi e un oculato investimento. I morti non si accontentavano della pasta fatta in casa (lǝ sagnǝ) e preferivano quella comprata (lǝ maccarùnǝ). La pasta veniva condita con il fondo di cottura di pollo o anatra, insaporito con zampe e frattaglie e conserva di pomodoro e peperone. Oltre alla carne veniva poi preparato il baccalà o le sardelle infarinate e fritte, formaggio di pecora, ortaggi conservati, e un piatto a base di zucca (Chǝcocc’e ppatanǝ), frittelle (nu vaccìlǝ de rǝvòtǝchǝ) fritte in olio fresco di frantoio. Un cesto propiziatorio di frutta tra cui melograni (mǝrǝcanàtǝ), cachi, noci e mandorle (nucǝ e’mmànǝlǝ), carrube (sciuscèllǝ) e fichi secchi (carracìnǝ).

Non mancava una caraffa di vino nuovo o di "acquata", nell’antico boccale grande di San Rocco (lu vǝcàlǝ grossǝ dǝ Sand Rocchǝ), che si metteva al centro tavola, coperto da un tovagliolo (‘na mandricchièllǝ). I posti a sedere venivano sistemati in ordine simile a quello dell’altarino collocato, per l’occasione vicino alla lunga tavola imbandita. Sulla tavola due candele accese per tutta la notte. Il giorno dopo, avendo attenzione di non inciampare nell'anima invisibile di qualche defunto attardatosi al banchetto metafisico, si consumava devozionalmente il pranzo mangiandone la porzione materiale residua dopo che i defunti ne avevano mangiato quella simbolica. Si rafforzava cosi il legame tra morti e vivi, rammentando a questi ultimi che la vita va vissuta in pienezza e serenità.

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