In Abruzzo la vigilia di Ognissanti si salda nella tradizione con la settimana di devozioni e riti legati al culto dei morti. I ragazzi sfilavano per le vie con le lanterne, zucche intagliate con occhi e bocca, con denti fatti di canna e lumini accesi all'interno, scandendo i passi con una filastrocca: la cì la cì, la cì, la vera cirǝ; lacì lacì, la vera cirə; lu peparole rušce; chi li chinošce, chi li chinošce; potevano ricevere qualche frutto secco, un melograno e se erano fortunati gli sgajuzzə (sgaiozzi, in alcune zone anche "squajuzzǝ"), frittini di pasta di pane. Chi rimaneva in casa mangiava “povero e poco”: la mattina lu pane cottə e sera la verza con aglio e bastardoni, e una sardella salata fritta. Ma siccome il popolo per realizzare un desiderio spirituale ha bisogno di farlo cibo, si preparava anche la granatə, zuppa rituale a base di grani e legumi. Il consumo di questa zuppa germinale nel giorno di Ognissanti ha un significato fortemente propiziatorio, come le famose lessagne o virtù del Primo Maggio.
Poi veniva l'impegno più importante, rinforzare il rapporto con il mondo dei morti, alimentandoli.
La vigilia del 2 novembre ai piccoli veniva spiegato che i morti sarebbero tornati alla mensa domestica (la tavelǝ dǝ li murtǝ), per un sacro pranzo di cibi prelibati e simbolici. I morti non si accontentavano della pasta fatta in casa (lǝ sagnǝ) e preferivano quella comprata (lǝ maccarùnǝ). La pasta veniva condita con il fondo di cottura di pollo o anatra, insaporito con zampe e frattaglie e conserva di pomodoro e peperone. Oltre alla carne veniva poi preparato il baccalà o le sardelle infarinate e fritte, formaggio di pecora, ortaggi conservati, e un piatto a base di zucca (Chǝcocc’e ppatanǝ), le rǝvòtǝchǝ, similcrespelle preparate in padella preriscaldata sul fuoco e unta con l’olio fresco di frantoio con impasto contenuto in “nu vaccìlǝ de rǝvòtǝchǝ”. Un cesto propiziatorio di frutta tra cui melograni (mǝrǝcanàtǝ), cachi, noci e mandorle (nucǝ e ’mmànǝlǝ), carrube (sciuscèllǝ) e fichi secchi (carracìnǝ).
Non mancava una caraffa di vino nuovo o di "acquata", nell’antico boccale grande di San Rocco (lu vǝcàlǝ grossǝ dǝ Sand Rocchǝ), che si metteva al centro tavola, coperto da un tovagliolo (‘na mandricchièllǝ). I posti a sedere venivano sistemati in ordine simile a quello dell’altarino collocato, per l’occasione, vicino alla lunga tavola imbandita. Sulla tavola due candele accese per tutta la notte. Il giorno dopo, facendo attenzione a non inciampare nell'anima invisibile di qualche defunto attardatosi al banchetto metafisico, si consumava devozionalmente il pranzo mangiandone la porzione materiale residua dopo che i defunti ne avevano mangiato quella simbolica. Si rafforzava così il legame tra morti e vivi, rammentando a questi ultimi che la vita va vissuta in pienezza e serenità. (Francesco Stoppa, direttore del CATA UdA, studioso di tradizioni popolari).
SGAIOZZI o SGAJUZZƏ – Ricetta
INGREDIENTI
1 kg di farina di grano tipo 0
550 ml di acqua
50 gr di lievito di birra
1 filo d’olio EVO
Un pizzico di sale e uno di zucchero
PROCEDIMENTO
La sera, procedere alla preparazione del “lievitino” con l’intera dose del lievito e parte di farina e acqua. Aggiungere un filo d’olio, un pizzico di sale e uno di zucchero. Impastare e lasciare riposare per tutta la notte in ambiente caldo. La mattina, aggiungere alla pasta lievitata il resto degli ingredienti e un uovo intero precedentemente sbattuto. L’impasto deve risultare molto morbido.
Infine, prendere l’impasto con il cucchiaio e buttarlo nell’olio Evo bollente. Ripetere l’operazione fino a finire la pasta. Spolverare con lo zucchero se si preferisce.
Servire gli squagliozzi caldi per lo spuntino o in un cestino affiancato da affettati.
REVOTECHE
1 kg di farina di grano
Acqua q. b.
Sale q. b.
PROCEDERE come per la preparazione delle crêpe. Si mescola l’acqua con farina e sale fino a ottenere una massa abbastanza fluida. Si unge la padella (la fressora) con l’olio di oliva e si lascia scaldare sul fuoco. Si versa un mestolo della pasta e roteando la padella con le mani, si fa in modo che si stenda uniformemente sul fondo rovente. Si lascia sul fuoco fino a ottenere una focaccia morbida, che poi va rigirata (da qui il nome di rivoteca) e tolta velocemente.
Le revoteche così ottenute vanno gustate tiepide, o da sole con una spolverata di zucchero, o piegate in due/ quattro, inserendo all’interno del companatico. Per la tavola dei morti spesso erano farcite con le alici crude precedentemente sminuzzate.