from: Adamo Carulli

Dumane passe che abbijeme a coce

La comunità di Roccamontepiano si ritrova intorno al Vino Cotto

Roccamontepiano

Non è un segreto e neanche un mistero che a la “Rocche” gruppi di famiglie e amici iniziano in questo periodo la nobile arte della cottura del mosto.

Ai più la cosa è sconosciuta, poiché in quasi tutto il territorio abruzzese questo rituale è scomparso da tempo.

Esiste però una intera comunità, quella di Roccamontepiano che alle falde Maiella resiste e continua e mantenere viva non solo la tradizione ma la vera competizione tra borgo e borgo, tra contrade e rioni e in esse si gareggia anche tra famiglie e famiglie.

La cottura del mosto è una poesia che confonde le nuvole con il vapore, il fresco della sera con il calore delle fornacelle, il dolce profumo che riempie l’aria con la pazienza del tempo che necessariamente deve scorrere con una cadenza che ricorda inevitabilmente altre epoche.

L’uva pigiata così passa quasi immediatamente “a lu callare de rame”.

Non aspettatevi i tempi rapidi della modernità, ovviamente, la cottura è un lavoro, lento e paziente che riprende il ritmo “de na vote”.

Il passato riemerge con tutta la sua forza perché questo tipo di rito rurale non guarda l’orologio.

In tutto ciò non esiste il tempo di cottura, come la modernità ci suggerisce sulle etichette dei prodotti.

Qui “sa dá spèttá, ne ngè vó la furie”, tutto si cucina a poco a poco con una bollitura a fuoco diretto che dura ore e ore.

Così, quella spremitura delle uve tante attese durante l’estate viene portata ad essere un denso, cocente e dolce mosto cotto.

Vi chiederete quindi il perché dello spreco, tanto ridurre in vapore libero la stragrande parte del prodotto.

Rispondo semplicemente che i nostri nonni si sarebbero meravigliati di un quesito così banale.

Chi continua a portare avanti la tradizione sa che per le cose buone occorre tempo, pazienza e sacrificio.

Anche nel caso del “vino cotto” questi elementi sono gli ingredienti di un prodotto unico e nobile nel suo genere.

Le cose che hanno un valore, con questi elementi, diventano un vanto per chi lo fa e il passo è breve che va dalla competizione alla genuina convivialità.

Esiste ancora un piccolo mondo rurale capace di animare anziani e giovani, tutti rigorosamente assieme e attorno alle “furnacelle de crete o de prête”.

A Roccamontepiano non mancano quindi né la terra cruda a valle e neanche le pietre a monte, né tantomeno i vigneti.

“La furnacelle è tonne, nù circhiole che se fá nghe là terre o le prête attorne a lu callare de rame.

Sotte, gnì nu forne, là vocche addù sappicce lu fôche lende e ce se mette le lène, li tirtûre e le ceppe.

Lu fume saije e esce da na fumarole e sammiscjie ghe lu vapore”.

Attorno a questi forni sacri, tornano a nuova vita gli attrezzi di famiglia, quelli che hanno solo il nome dialettale: la conghe, lu callare, la schiumarole, lu manire.

Oggetti da museo che animano, ancora una volta una scena che potemmo dire da presepe vivente.

Tra un convivio, una chiacchiera e una bevuta si arriva al momento decisivo, gli ultimi minuti quando tutto sembra compiersi in una manciata di secondi e tutto è pronto per fermare il fuoco e che da noi è “sadá cacciá”.

Esso è il momento più delicato di tutti, è l’attimo fuggente, il punto di bruciatura che non deve andare oltre.

Qui si rischia l’intera partita, durata molte ore e tutto rischia di essere rovinato o per il troppo indugiare o per una affrettata uscita.

I “mastri” riconoscono il momento dalla bollitura, dal filo continuo che il mosto compie nello scendere da “lu manire”.

Quel filo ambrato di nettare cotto che altro non è che frutto di un lavoro attento e paziente di mani solcate da mesi di sacrifici.

I consigli non servono al “mastro”, l’accalcarsi non lo inquieta, anzi, gli dà la forza di poter dire con voce autorevole “levateve d’attorne, la cotte è pronte”.

E così il fuoco viene spento e nei manici del caldaio di inserisce l’asta per sganciare dalla forma della fornacella il recipiente ancora arrovellato.

Adesso si alza, tutti insieme e si preleva con la conca e dritto, tutto dentro la nuova botte.

Qualche ospite dell’ultimo minuto di solito non fa mancare la tipica domanda “bhè, pe’ chi è su vine cotte?”.

Non vi sono segreti e misteri in una piccola comunità e la risposta già scontata, è sempre la stessa: “pè nepóteme, ca ha nate uannè“.

Padri e figli, mamme e nonne così, in cuor loro, consegnano il testimone della tradizione. Il vino cotto da noi accompagna un uomo o una donna per tutta la vita.

Lo sanno i nonni e anche i genitori che tutto continuerà ad esistere e scandire le stagioni dell’esistenza dei propri discendenti, anche quando loro non ci saranno più.

Ecco perché il vino cotto non è solo un vino dolce, esso è molto di più di quello che si beve.

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